Nel 1988 Venezia lo festeggia con il Leone d’oro alla carriera e scompare due anni dopo, il 20 luglio del 1990. Nel lungo elenco dei registi perseguitati e imprigionati, Sergej Paradzanov ha avuto un posto speciale perché le sue opere volano così in alto da non poter essere afferrate. Perfino il suo nome aveva subito una cancellazione, l’armeno Paradzanian sovietizzato in Paradzanov, catalogato come regista russo o georgiano, ma in realtà prendeva posto là dove c’era poesia. «Armeno fino in fondo» si dichiarava. Era nato a Tbilisi in Georgia da genitori armeni nel 1924, aveva studiato all’Istituto del cinema di Mosca, il Vgik, iniziato a lavorare a Kiev in Ucraina. Il primo film che gli diede una grande notorietà fu Le ombre degli avi dimenticati (1964) da un romanzo dello scrittore ucraino Kocjubinskij, storia d’amore tra due ragazzi di famiglie nemiche, un dramma intessuto di mitologia dei Carpazi, popolato da figure arcane, visionario tanto da essere completamente fuori linea rispetto alle regole della cinematografia sovietica, un film che non poté neanche accompagnare a Mar Del Plata dove fu premiato perché da subito venne osteggiato per la sua ardita composizione che si rifaceva in parte alle avanguardie, al surrrealismo, ma soprattutto a una visione assolutamente personale, dove lo sguardo si perde in prospettive inaspettate.
Nei pochi fim che riuscirà a girare nella sua vita – è stato più il tempo passato in prigione – saranno concentrate le suggestioni della cultura armena, georgiana, ucraina attraverso le opere d’arte medievali, le miniature, le tradizioni etniche, i tessuti, i tappeti, gli oggetti, i canti, l’eco del surrealismo nel cinema.
SAYAT NOVA
È del 1969 Il colore del melagrano (1969, Sayat nova-Cvet granata) ispirato a Sayatyan, poeta, musicista, «trovatore» del Rinascimento armeno del settecento che scrisse con lo pseudonimo Sayat Nova in un periodo di grande oppressione culturale. Nel film Sayat Nova vive a corte a Tbilisi, come musicista e si innamora di un impossibile amore per la regina della Georgia (interpretata da Sofiko Chiaureli, grande nome del cinema georgiano, sua musa). Ma, avvertono i titoli di testa, questo film non narra la vita di un poeta, si sforza di riprodurre i moti della sua anima attingendo alla poesia medievale. Un susseguirsi di quadri, che affascinano lo spettatore tanto da non rendersi conto che è già parte del tessuto di immagini. Bisogna ricordare che la politica sovietica tendeva ad uniformare le diverse nazionalità, alla «sovietizzazione» e se i cineasti si ispirano ad elementi nazionali sono pur sempre tenuti sotto controllo, come quando il regista Maljan (che Paradzanov considera un grande regista) nel suo epico «Naapet» (’77) parla del tragico destino di un milione e mezzo di armeni massacrati dai turchi, ma salvato dal genocidio dall’avvento del regime sovietico grazie al quale il protagonista Naapet può tornare alla sua terra. Rispetto a questo tipo di film, dove si mettevano in risalto le ambiguità della borghesia, gli usi e costumi dei contadini, i risultati ottenuti dai sovietici, l’esplosione della poetica di Paradzanov è incontrollabile. Oltre alla forte e sospetta componente spirituale espressa dalla simbologia legata all’ortodossia.
Dopo la censura, il divieto di continuare a fare film, lo scontro con le autorità diventa pesantissimo durante gli anni ’70, per culminare con la prigione nel ’74 con l’accusa di traffico e furto di oggetti d’arte, e omosessualità: invano Pasolini, Fellini, Tonino Guerra, Antonioni, Yves Saint Laurent, Françoise Sagan, Jean-Luc Godard, François Truffaut, Luis Buñuel tra gli altri firmarono un appello per la sua liberazione. Fu condannato a sei anni di lavori forzati, ridotti poi a quattro. Uscì di galera con una grande quantità di disegni e sei sceneggiature (tutti i registi, disse, dovrebbero fare un po’ di prigione)
Realizza nell’80, chiamato dalla cinematografia e dagli intellettuali georgiani, La leggenda della fortezza di Suram, affiancato da David Abasidze e Ashik Kerib dedicato a Tarkovskij, da un romanzo di Lermontov sulla cultura degli Azeri.
LA FORTEZZA DI SURAM
Ancora una volta sorprende nella Leggenda della fortezza di Suram l’inaudita novità del quadro, le location tutte autenticamente in rovina, il surplus del significato storico e culturale, gli oggetti anch’essi autentici e mai imitazioni, sontuosamente barocchi. La leggenda della fortezza di Suram vuole dare un senso filosofico all’eroismo: «L’epoca, gli elementi che sono stati studiati sulla base di quadri storici o semplicemente da me inventati, la plasticità del film, l’immagine naturale, ci conducono verso l’arcaismo». Un piccolo eroe un po’ puerile che gioca a fare il grillo mentre «lei» si veste da farfalla per la festa, ma infine compie la scelta di diventare un eroe per il suo popolo, rinuncia alla vita tra cavalli bianchi. Il mistero del film (come di Sayat Nova) è che sviluppa una miriade di associazioni a una prima visione impreviste, che durano nel tempo come del resto nelle fiabe l’intreccio è da completare ogni volta.
Fu nuovamente arrestato nell’82. Poi torna a Yerevan.
Nella sua casa (infestata dai diavoli? gli disse un giorno Tarkovskij e lui la fece radere al suolo, la ricostruì e vide sulle macerie un tipo che camminava con due cani al guinzaglio, certo erano i diavoli, pensò. Ma sono tante le storie che inventava) nel suo salotto circondato a tutte le ore da poeti, artisti, cineasti, danzatori, da oggetti preziosi e autentici (mai imitazioni, sorride dei russi che arrivano in vacanza ad acquistare paccottiglia finto etnica), indossa caftani realizzati da lui da centinaia di ritagli di tappeti.
Sentiva di aver aperto una piccola finestra nel cinema armeno dalla quale poter vedere prodigi, ma allo stesso tempo pensava che la censura e il disprezzo che aveva subito non gli avevano permesso di lasciare una traccia durevole.