Com’è noto, i biscotti della fortuna sono involucri di sfoglia croccante nei quali è racchiusa una strisciolina di carta su cui è stampato in varie lingue un pensiero perlopiù beneaugurante di sapore orientale. Solitamente arrivano alla fine del pasto nei ristoranti cinesi e rappresentano un congedo e un viatico per il proseguimento della serata. Briciole di saggezza che offrono l’occasione per sorrisi e scambi di battute ammodo prima che i clienti escano dal locale per affrontare di nuovo le strade metropolitane.
Biscotti della fortuna è il titolo che Gabriele Pedullà dà alla raccolta dei suoi racconti (Einaudi, pp. 201, euro 15), terza prova narrativa dopo Lo spagnolo senza sforzo e il romanzo Lame. E il titolo già dà un’idea della leggerezza che segna le storie qui narrate e che costituisce il loro nucleo più vero.

ANCHE IN QUESTA RACCOLTA trovano conferma le caratteristiche di una scrittura limpida, sorvegliata con attenzione minuziosa e resa lucida e veloce. È infatti la velocità il primo attributo di queste storie, tratto distintivo che viene confermato dal ritmo narrativo, impresso soprattutto ai testi presenti nella prima parte; nei racconti successivi invece la narrazione si fa più distesa e la voce del narratore acquista tonalità meditabonde. Il linguaggio è formulato sul registro colloquiale, proprio di individui appartenenti ad ambienti colti e non pedanti, piuttosto pragmatici e sempre ben sicuri di quello che fanno e di quello che dicono, mentre il narratore ne segue a distanza i movimenti, senza primi piani o dilatazione dei tempi.

LE FRASI SI SUSSEGUONO scivolando una dopo l’altra e non si trattengono nella memoria del lettore più del tempo necessario ad abbracciarne con gli occhi la struttura. E poi via, subito alla successiva, in una corsa che mima la velocità, che non è solo quella imposta dai ritmi quotidiani, ma si direbbe che appartenga al modo con cui i personaggi entrano in relazione con la realtà e con gli altri, sfiorandoli e superandoli subito dopo. Tutto in superficie, tutto ben visibile, senza ombre né pieghe.
I personaggi hanno mediamente una buona posizione, una vita piena di interessi e impegni e si muovono con disinvoltura tra New York, Parigi, Baltimora, Roma. Connotati da caratteri decisi, affrontano la quotidianità con una certa baldanza, espressione di una protratta giovinezza che è frutto di ingenuità e fiducia in se stessi, condizione che permette loro di volare leggeri e inattingibili al di sopra dei problemi che affliggerebbero gravemente chiunque altro. Senza sforzo apparente, e quasi sospinti dal peso inconsistente dei loro corpi protesi verso un futuro privo di ombre, come pattinatori cui l’attrito e il peso della materia donano un sovrappiù di leggiadria e dinamicità.

Un plot come quello presente in Il nostro amico, ad esempio, si presterebbe a infinite variazioni sul tema della indecifrabilità degli individui, sulla struttura cristallina e infrangibile dei cerimoniali della buona società, se non addirittura sugli abissi che si celano dietro rapporti sociali costruiti su riflessi condizionati e manovrati ad arte, ma tali da tessere intorno agli individui una rete di false certezze e di dubbi, che nessuno ha il potere né la volontà di sciogliere.
La storia, particolarmente emblematica, è quella di un uomo che si presenta in società ostentando di essere un vecchio amico di ciascuno, sicuro di sé, di condizioni economiche agiate, che si introduce in tutti i luoghi dove si ritrova la gente che conta, e che d’improvviso si sottrae ai presunti «amici» con la stessa inopinata velocità con cui si era palesato.

È QUASI FATALE che una storia così strutturata evochi il ricordo di figure letterarie note, come il Mattia Pascal, il Perelà uomo di fumo, o anche il Peter Schlemil. Il vecchio amico però, se si rivela di fatto privo di consistenza e capace di esistere come riflesso della considerazione degli amici che va via via ritrovando (o inventando), tuttavia è in grado di operare una destrutturazione fatale nella coerenza e della compattezza del narratore e di tutti coloro con cui egli è venuto in contatto. Il non disporre di un’identità certa e il tentativo di acquisirla o di captarla con l’inganno mette in azione un meccanismo che porta alla crisi e alla rarefazione della personalità di tutti gli altri, privati di quella maschera che aveva garantito le reciproche identità.
La labilità dell’identità torna in forma paradossale e surreale nel racconto O a febbraio o a settembre, nel quale essere omonimi di personaggi celeberrimi genera una forma di parossistica irrealtà che insinua nel lettore il sospetto che tutta la storia sia nient’altro che un insensato gioco di specchi. Anche qui il noto diventa improvvisamente enigmatico così da indurre a indagini frutto delle quali non potrà essere che la catastrofe, tanto dell’indagato quanto dell’indagante. Come i biscotti della fortuna, i profili dei personaggi rivelano una immedicabile friabilità che nasconde al suo interno un cuore di certezze sgomentevolmente inutili.