Per scoprire il multiforme e rivoluzionario mondo di Victor Papanek, ignorato dai manuali di storia del design, trascurato dagli editori che ormai da mezzo secolo hanno smesso di ripubblicare i suoi libri, occorre andare fino al Vitra Museum e visitare la mostra curata da Amelie Klein e Alison J.Clarke, dal titolo Victor Papanek The Politics of Design (fino al 10 marzo 2019). Ci si renderà allora conto dell’importanza di questo antesignano della controcultura del disegno industriale, del suo infaticabile impegno contro l’obsolescenza della merce e lo spreco delle risorse, pioniere della progettazione rivolta ai bisogni sociali e critica dei consumi superflui nell’epoca della «coca-colonizzazione». Nel muoverci tra i suoi arredi, invenzioni, grafiche, manifesti e libri, appare evidente perché il suo lavoro ottenga oggi un ascolto più ampio rispetto agli anni sessanta e ottanta, quando cioè veniva messo in discussione il ruolo del designer, o meglio dell’industrial designer, nella società del capitalismo avanzato.

Ergonomia e semplicità stilistica

A causa dell’occupazione nazista, nel 1939 lascia Vienna, dov’era nato nel ’23, e ripara negli Stati Uniti. Nel decennio del dopoguerra realizza una serie di progetti rivolti soprattutto all’interior domestico, nel segno dell’ergonomia (Chair Shibumi) e dell’assoluta semplicità stilistica, e sulla base delle teorie coeve di Rudofsky, Neutra, McLuhan, Jacobs. Successivamente si interroga su come il designer possa divenire «risolutore di problemi per la comunità», orientandosi verso l’ecologia e i processi innovativi e di produzione condivisa (oggi detta open source). In un mondo come quello contemporaneo, dove l’economia non distingue più il centro dalla periferia, il locale è globale e diminuisce il divario tecnologico tra i paesi – nonostante permangano miserie e disuguaglianze –, le considerazioni di Papanek sono ancora lì salde nel porre la questione sul ruolo progressivo del disegno industriale all’interno dei processi di modernizzazione. I quesiti da lui posti sono gli stessi di sempre, nati al sorgere della rivoluzione industriale e in parte irrisolti dopo che la globalizzazione dell’economia ha radicalmente trasformato il pianeta. Essi sono racchiusi nella domanda su cui ruota il suo libro più famoso, Design for the Real World (1971): in che modo è possibile «progettare per il mondo reale»? E se «progettare significa sforzo cosciente per imporre un ordine significativo», come si argina il disordine che ancora regna sovrano? Domande nodali alle quali è possibile dare in parte delle risposte attraverso la lezione di Papanek, malgrado il suo rivolgersi alle «tecnologie povere» sia stato inteso da molti – tra questi Tomás Maldonado – come «ripudio in blocco» del modello di sviluppo delle società industriali.

La mostra, suddivisa in quattro sezioni, incrocia diversi piani narrativi. Passata la prima, che chiarisce su un’ampia parete le «connessioni creative» di Papatek con le diverse personalità dell’arte e della cultura presenti nel corso della sua carriera, si prosegue nella seconda dov’è illustrato cronologicamente il suo eterogeneo cammino intellettuale con una minuziosa raccolta di materiali originari provenienti dalla Victor J. Papanek Foundation all’Università di Arti Applicate di Vienna, per arrivare alla terza dove arredi, oggetti e disegni chiariscono gli argomenti centrali della sua ricerca professionale e il rapporto con i suoi seguaci: tutto convergente nella critica radicale alla civiltà dei consumi. Nell’ultima sezione i principali temi del designer austro-statunitense, ispirano venti opere di artisti contemporanei. Tomás Saraceno trasporta nei cieli la riflessione sulle reti e la connettività, con le sue sculture city-in-the clouds, mentre Forensic Architecture e Julian Oliver affrontano come potrà salvarci la tecnologia dall’oscuramento delle notizie nell’era della guerra-al-terrore, altri ancora trattano la critica ai consumi (Emory Douglas, Sture Johannesson) o rileggono in nuove chiavi l’«imperativo verde» in difesa della Terra (Haus-Rucker-Co, Alexandra Daisy Ginsberg).

È singolare come i molteplici campi investigati da Papanek abbiano influenzato l’arte contemporanea e solo in parte l’architettura e l’ingegneria, le discipline progettuali considerate da lui «gemelle» dell’industrial design, sulle quali la mostra sorvola, probabilmente perché, come ha scritto Bruno Latour, «tra modernizzazione ed ecologia occorre scegliere». Papanek nel valutare gli schemi e i modelli (telesis) dello sviluppo industriale nella società occidentale non esitò, con estrema intransigenza e una buona dose di sarcasmo, a «scegliere» e a denunciarne le antinomie e i paradossi. Credette che il destino dell’umanità fosse ormai segnato poiché l’inseguimento al massimo profitto andava a discapito della qualità, del gusto, del risparmio, ma soprattutto contro la soddisfazione dei bisogni elementari di persone svantaggiate per condizioni di vita e provenienza. Per evitare la «distruzione della vita sulla terra» egli assegnò alla progettazione un ruolo rilevantissimo perché «matrice primaria e intrinseca della vita».

Gli oggetti-feticcio contemporanei

Se svolta in modo integrale e interdisciplinare, questa è un’alternativa agli «oggetti-feticcio per la società opulenta». È sufficiente fermarsi davanti ai suoi prototipi e oggetti ideati tra gli anni sessanta e settanta – per la casa (Umbrella Lamp), per l’infanzia (tetradecaedri modulari per parchi giochi), per l’allora chiamato Terzo Mondo (Tin Can Radio), per l’uso «nomade» ed estemporaneo (Lean-to Chair), per la mobilità low-cost (veicolo a pedali Mini Haul) – per comprendere come la progettazione di Papanek fosse rivolta al mercato mondiale e non domestico, alle necessità della gente e non ai «desideri creati artificialmente». In collaborazione con i suoi studenti della Purdue University (Indiana), del California Institute of the Arts o di altre università statunitensi, egli intuì l’importanza del lavoro di gruppo per misurarsi in modo «generalista» con i problemi dell’ambiente urbano, convinto quanto il suo amico Buckminster Fuller che la «specializzazione conduce all’estinzione». Per educare «sintetizzatori» e non «specialisti», consigliò di rivolgersi alle scienze sociali, all’etologia e all’antropologia. È dal «manuale della natura» che si ricavano i prototipi biologici (biomorfi), mentre dal contatto delle culture alternative e indigene – per lui sono gli indiani Navajos, Inuit, papuani e balinesi – si comprende il senso olistico del progetto responsabile.

Nel ’95, tre anni prima di morire in Kansas, Papanek pubblica The Green Imperative, saggio-testamento nel quale riassume in che modo connotare il disegno industriale di significato umanitario: un’ottima occasione, come la mostra del resto, per affinare il nostro sguardo critico sul mondo che verrà.