Una atmosfera onirica, un ingresso da Vita da Boheme che precipita in un passo da rockstar. Interviene poi un davvero poco epico «buona sera». Comincia così, con la traccia della sua ironia sconnessa, metà festa di paese metà Globe Theatre, Pane o libertà, lo spettacolo di Paolo Rossi al Teatro Strehler di Milano (fino al 25 ottobre). In platea, posti distanziati come da protocollo sanitario aggravato dalle notizie della giornata, c’era voglia di stare assieme.

ROSSI se ne accorge e duetta con il pubblico, ci parla proprio, fa alzare gli spettatori, si ride anche quando non c’è nessun motivo. «Qui sopra al palco siamo senza mascherina, siamo peggio dei congiunti, mangiamo nello stesso piatto», dice rivolto ai compagni di scena, chitarra, contrabbasso e fisarmonica, indossano paltò elisabettiani. Ed entra dritto nel tema dello spettacolo, un canto d’amore per il teatro, un rievocare di lari, un chiedersi cosa ne è ora di questa arena, in questo tempo così povero di cultura, così pieno di paura.

Gli scherzi di Rossi sono sempre un po’ amari e un po’ dolci, si riempie il viso di riso e carezza insieme, come quando chiede libertà di parola almeno per i mimi, quando progetta, «una volta che tutto sarà finito» di fare il cammino di Santiago al contrario, sicuro che vedendolo in faccia i pellegrini ritorneranno sui loro passi. Le canzoni sono l’intervallo a questo tempo di riflessione da osteria, siamo tutti nello stesso guaio, la sala sembra un ricovero di reduci della spensierata tristezza dei canzonieri.

L’AUGURIO lo pronuncia Rossi, ma sembra che parli a nome di tutti: che il teatro torni ad essere una riunione di condominio buffa, una ballata di asintomatici, «quel luogo dove racconto cose meravigliose accadute ad altri attribuendole a me e cose orrende accadute a me attribuendole ad altri, per finire in una menzogna in cui non ricordo qual è la mia vita». Questa magia è l’omaggio di Rossi, «questo vedere nella polvere la gonna di una donna», come dice azzardando una melodia. Questa illusione da gioco di prestigio, che gli spiegò Jannacci con una battuta fulminante, quando rispose a lui che gli chiedeva «ma scusa Enzo, ma questa poesia non è di Prevert?» «Beh, me l’avrà rubata di sicuro». E si avvicendano così i fantasmi di quegli anni dove il cabaret era una cosa seria, dove si poteva tirare fuori la propria parte oscura e scoprire che era un affare collettivo.

Arriva il Riccardo III, è proprio l’inverno del nostro scontento, che Rossi traduce col «tempo in cui abbiamo appeso agli appendini le nostre anime ammaccate». Canta Gian Maria Testa: «Vanno via dalle mani i sogni più leggeri». A volte, in controluce, sembra che la sua assomigli alla sagoma di Totò. E per incanto è lo stesso momento in cui dice che l’arte serve anche per addomesticare la morte, per non morire mentre si è ancora in vita, che è proprio il segreto della malinconica allegria di Napoli.
È uno spettacolo pensato durante il lockdown, ne ripercorre le surrealtà, come lo smart working, «che non sono riuscito a capire del tutto, come fa per esempio un operaio a impastare il cemento in salotto?».

A SCENA CHIUSA Rossi difende i lavoratori dello spettacolo, «siamo stati trattati come malfattori, come quelli senza tetto» ed in questo ci dice che per lui non si tratta di una questione corporativa, ma di un fatto politico trasversale, che unisce, ad esempio, «chi vuole raccontare delle storie con quelli che lo rendono possibile, come i tecnici o come chi monta i palchi. Una umanità abbastanza diversa da chi in televisione, dal suo salotto sorride e dice restate a casa». Ci racconta dei mesi di spettacoli in periferia, cani che salivano sul palco, delle difficoltà e della bellezza di quando il pubblico non diceva «bravo, ma grazie». È amareggiato per una politica culturale che ha scelto la mediocrità. E questa mediocrità è «la cifra della diserzione della sinistra». D’altronde, ci fa notare, cinema e teatri sono stati luoghi capaci di essere sicuri, dove il distanziamento è stato seguito alla lettera. Solo chi non frequenta il paese non si accorge di quali misure siano utili, di quali siano dannose. Il pane e le rose oggi è il pane e la libertà.