In chiusura della nota apparsa sul Divano della settimana scorsa che ha per titolo Ancora sulle canzoni di Paolo Pietrangeli, ho richiamato una pagina di Una spremuta di vite, il romanzo d’impianto autobiografico pubblicato dall’editore Navarra nel 2014. Ho citato il passo là dove Pietrangeli svolge una riflessione sul Sessantotto che, per comodità del lettore, di nuovo, qui di seguito trascrivo: «Nell’ottobre del 1967 in un teatro off-Broadway va in scena Hair, il musical di James Rado e Gerome Ragni. Il tema più celebre canta: Let the Sunshine In, lasciate che il sole sorga. Icona perfetta del 1968 e dintorni. C’eravamo sbagliati tutti: il sole non stava entrando ma avviandosi all’uscita; non era l’alba di un’epoca, ma più probabilmente il suo tramonto». A questa luce, scrivevo, potremo forse bene intendere la vena che alimenta l’opera Pietrangeli.

Non deve sorprendere la valutazione che Pietrangeli dà del Sessantotto, che può essere resa nei termini di ‘tramonto del sol dell’avvenire’. Certo, se sol dell’avvenire sta a designare modi, forme, idee, soggetti e pratici strumenti (schieramenti, alleanze, conflitti) d’una centenaria (e articolata e drammatica) storia delle lotte condotte nel mondo per l’affermazione d’una giustizia e d’una libertà sostanziali. Infatti la temperie del tramonto, per dir così, si configura in lui come consapevolezza, è la esigenza della valutazione critica da elaborare di giorno in giorno, diresti, e tesa a comprendere gli accadimenti e i fatti che hanno contrassegnato un cinquantennio. Le istanze innovative del Sessantotto, certo.

Ma con sol dell’avvenire si intende significare, inoltre e specialmente, quella prospettiva eminentemente umana che non può essere appannata o cancellata, e che è indispensabile operare perché sia mantenuta visibile, e tale si mostri, possibilmente, da fornire l’orientamento necessario al perseguimento di relazioni sociali e personali capaci di assicurare un benessere e una felicità a beneficio di ciascuno e di tutti. È in virtù di questo sol dell’avvenire che di Pietrangeli sarà piuttosto da tenere nel debito conto la costanza del suo diretto impegno politico, condotto senza interruzione nel corso degli anni e fino a quest’anno 2021, assolvendo ai compiti di una militanza (dal Partito comunista al partito della Rifondazione comunista) alla quale sentiva il dovere di attenersi. Pietrangeli, disponibile a svolgere ruoli diversi: nelle attività di base volte alla promozione e al sostegno di circoli culturali, ad esempio; o contribuendo alle campagne elettorali, comizi e concerti in piazza; così come all’adempimento di incarichi istituzionali (l’assessorato al Comune di Roma, per esempio). Sicché non solo il profilo pubblico o, si dica, esplicitamente politico, ma il Pietrangeli autore di canzoni mantiene un fermo, mai sospeso intendimento d’ordine ‘civile’, dentro la complessa vicenda politica (e culturale) del comunismo nell’Italia repubblicana.

Dunque un assai particolare stato creativo induce la temperie del tramonto nell’autore di canzoni Paolo Pietrangeli. E fin dal Sessantotto, a ben vedere, e fin dal corso degli anni Settanta. Valga il vero. Nel 1977 Cesare Bermani raccoglie testi e musiche (trascritte da Ezio Cuppone) delle canzoni di Pietrangeli per le Edizioni Bella Ciao. Funge da prefazione uno scritto di Sandro Portelli che a me sembra il commento critico insuperato riguardo all’opera di Pietrangeli. Portelli lo annovera tra «i poeti veri dell’Italia di oggi» perché assolve «davvero il compito dei poeti, almeno dei poeti che sono in rapporto col loro tempo: e cioè il compito di dare espressione immaginativa, fantastica, ai fatti sociali collettivi; di scavare il rapporto tra i fatti sociali e i fatti personali, scoprire in che rapporto stanno, in che modo si possa vivere politicamente i fatti personali e arricchire con la fantasia i fatti politici». E, sottolineandone il «gusto e la passione per il linguaggio», fa notare come certe canzoni di Pietrangeli «sono la trasformazione in poesia, gioco e discorso politico del Trattato di Semiologia di Umberto Eco, un discorso sui rapporti tra lingua e potere, sulla potenza dell’ovvietà».