Sarà pure l’intensità dell’azzurro del cielo e la fisicità delle nuvole, insieme alla suddivisione regolare degli spazi, ma per libera associazione Cupola with Clouds and Ocean International Space Station rimanda all’Oculo con putti affrescato da Andrea Mantegna nella volta della Camera degli Sposi a Mantova. In ogni caso l’uomo è al centro dell’universo, come nella concezione umanistico-rinascimentale, sia nell’opera antica che nella foto contemporanea, scattata dall’astronauta Paolo Nespoli. «È la vista più straordinaria che si possa avere al di fuori dei confini terrestri», scrive il fotografo Roland Miller (Chicago 1958) nel libro A Visual Exploration of the International Space Station (Damiani, 2020) firmato a quattro mani con Nespoli, di cui è in corso la mostra alla galleria del Cembalo di Roma (fino al 30 gennaio 2021).

Hai più volte sottolineato l’importanza di nutrire delle passioni, la fotografia lo è per te?
Da adolescente, a Verano Brianza, facevo parte di un gruppo di ragazzi un po’ scalmanati che frequentava l’oratorio. Oltre alle attività della parrocchia, facevamo teatro, cinema – io ero operatore cinematografico come in Nuovo Cinema Paradiso – e fotografia. Avevamo addirittura costruito una camera oscura in una sala dell’oratorio e facevamo diversi esperimenti. La fotografia era un mezzo che mi permetteva di esprimermi, anche se non capivo esattamente come. Nel corso della mia vita mi sono sempre portato dietro questo interesse, tanto che qualche anno dopo, quando sono andato militare, proprio perché fotografavo mi fu assegnato un incarico speciale che mi avrebbe aperto altre possibilità. Nel 1982 fui mandato in Libano con la Forza Multinazionale di Pace come paracadutista incursore e fotografo per il comando di contingente. Mi dovevo occupare anche dei molti VIP, giornalisti e politici che arrivavano, la fotografia mi ha permesso di trovarmi in situazioni in cui altrimenti non mi sarei mai potuto trovare. Dopo quest’esperienza decisi di tornare a fare quello che era il mio sogno da ragazzo, ovvero l’astronauta. Non è stato semplice, ci sono voluti parecchi anni, ma la macchina fotografica l’ho sempre avuta con me.

In orbita sono state scattate le immagini di «Interior Space. A Visual Exploration of the International Space Station»…
Nel 2007 ho volato per la prima volta nello spazio a bordo dello Space Shuttle Discovery STS-120, poi vi sono tornato sulle navicelle russe Soyuz, nel 2010 e nel 2017, per le missioni di lunga durata Expedition-26/27 e Expedition-52/53. Alla fine della seconda missione, nel 2011, la NASA e l’agenzia spaziale russa decisero di fare una cosa mai fatta prima, ovvero fermare la navicella che si stava staccando dalla stazione spaziale e chiedere agli astronauti a bordo di fare delle foto. E chi era lì in quel momento? Io! Nel 2017, poi, quando fui assegnato alla nuova missione di sei mesi fui avvicinato dal fotografo americano Roland Miller che aveva già fatto un lavoro con la NASA. Roland pensava ad un progetto di documentazione della stazione spaziale, ma non potendo andarci cercava altri modi per realizzarlo. Il suo progetto era praticamente irrealizzabile, perché la situazione nello spazio è molto diversa dalla terra. Mi piaceva, però, l’approccio documentario non solo dal punto di vista tecnico, anche con un contenuto artistico e scientifico.

Quali sono state le difficoltà nella realizzazione di questo progetto a quattro mani?
Eravamo d’accordo perché realizzassi le foto nel mio tempo libero, altrimenti non avrei avuto il permesso dalla NASA. Nello spazio si è in servizio dalle 7 e mezza della mattina alle 19 e 30 della sera. Nel resto del tempo si dovrebbe dormire e c’è qualche ora per fare quello che si vuole, si può decidere di andare alla cupola e guardare di sotto, telefonare alla famiglia o scrivere la posta elettronica. Riflettendo sulla proposta di Roland, mi feci dei calcoli: erano sei mesi, lui voleva 80 fotografie – almeno così mi aveva detto inizialmente – con due minuti a foto per un totale di 160 minuti, ovvero 3 ore, avrei potuto fare tutto. Mi aveva mandato uno «script» con indicazioni molto precise su come realizzare le immagini che ho interpretato, aggiungendo la mia sensibilità e le possibilità in orbita. Ma non è stato facile. Il primo problema, però, ha riguardato il tempo, perché la NASA mi richiedeva di fare altre attività che portavano via il mio tempo libero serale, poi era difficile ottenere il feedback da Roland. Dovevamo comunicare per posta elettronica ed i file dovevano essere ridotti in jpg. Lui doveva aspettare che la NASA ricevesse le email e le mandasse all’agenzia spaziale a Houston che, a sua volta, le inviava all’agenzia spaziale italiana che gliele avrebbe inoltrate. Era difficile sincronizzarci, comunque siamo andati avanti. Per parecchi mesi non ho scattato nulla, anche per via di un altro problema tecnico relativo ai sensori. Nella stazione spaziale, per la documentazione, avevamo a disposizione un set di macchine fotografiche Nikon, all’epoca modello D4, con una serie di obiettivi. Però i sensori delle fotocamere digitali vengono influenzati dalle radiazioni spaziali e ogni giorno i pixel cominciano a spaccarsi, finché gli apparecchi non sono più utilizzabili. Sapendo sarebbero arrivati nuovi apparecchi, aspettai a fotografare. Volevo ottenere immagini che fossero il più pulito possibile. Solo negli ultimi tre giorni riuscii a realizzare circa 120 foto. Roland le ha viste quando sono tornato a terra, selezionandone un centinaio su cui è intervenuto con la post-produzione.

Immagini documentarie dell’archeologia spaziale (argomenti approfonditi nel libro dai testi di Alice Gorman e Justin P. Walsh) che portano a riflettere anche sulla terra e sui suoi abitanti…
L’archeologia spaziale è importantissima. Ho documentato la stazione spaziale internazionale che è un laboratorio come potrebbe essere una sala operatoria. Dovrebbe essere asettica, senza niente fuori posto, invece nelle foto si vede un gran disordine con i segni della presenza umana. Anche se nulla è lì per caso. Uno studio delle ragioni di tutto ciò, ci permette di conoscerci come razza umana fuori dalla terra che ricostruisce un ambiente completamente artificiale. Inoltre, la stazione spaziale che è in orbita dopo qualche anno sparisce disintegrandosi, rimarranno solo i disegni e qualche foto. Vedere il mondo da lassù porta, certamente, ad altre riflessioni. Intanto, quella che sembra una veduta statica è stata realizzata sfrecciando a 28mila km all’ora, quindi è un’immagine che dura pochi secondi e poi scompare. C’è l’Aurora Borealis nel nord dell’Irlanda e della Gran Bretagna e anche la vista del Medio Oriente con il delta del Nilo, il Libano, Israele e l’alba che sta nascendo. La prospettiva della terra è totalmente diversa dallo spazio! Gli uomini sono così agguerriti con i confini, eppure da lassù non si vede alcun confine. L’unico confine, molto importante, è l’atmosfera che separa noi, qua sotto, dal vuoto dell’universo. Se non ci fosse, non ci saremmo.

In Libano hai conosciuto Oriana Fallaci. Qualche anno dopo hai portato nello spazio una poesia che ti aveva dedicato…
Il mio incontro con Oriana Fallaci è stato casuale, ma dovuto alla fotografia. Tornò in Libano due o tre volte, tra la fine del 1983 e l’inizio dell’84, ed era anche l’unica giornalista con il contingente il giorno in cui abbiamo avuto l’ordine di evacuare da Beirut. La situazione era così tesa che l’ultima notte la condivise con noi dormendo su una brandina. La mattina dopo salimmo tutti sulle jeep, lasciando il posto con il cuore a pezzi. Nel porto, salimmo a bordo delle navi e durante il viaggio di ritorno in Italia, mentre ero sul ponte e guardavo Beirut, lei si avvicinò e cominciammo a parlare. Mi chiese cosa avrei voluto fare da grande. Facevo l’incursore per l’esercito, ma il mio sogno un tempo era stato fare l’astronauta. Un sogno impossibile. Perché impossibile? – disse lei – Se hai un sogno lo devi lasciare libero. Quella fu la scintilla che poi, piano piano, mi ha dato la forza di riprendere il sogno.