Paolo Conte non è più un ragazzino, ha qualche problema di udito, tende a farsi ripetere le domande, se sono multiple preferisce rispondere all’ultima, poi farsi ripetere la precedente. Ma lo spirito e l’acume sono sempre quelli di un personaggio unico e magistrale nel panorama della nostra musica. E allora alla domanda «come va?» lui risponde «eh, mi difendo, dagli anni, la nebbia, la pioggia». Eccolo, Paolo Conte 81 carati. L’occasione per incontrarlo deriva dal tour e dal doppio disco Live in Caracalla uscito da qualche giorno con l’ormai abituale corredo di brano inedito: Lavavetri. «È una cosa così, di tenerezza – sottolinea – due anni fa a Torino, ho incontrato questo personaggio, simpatico, sorridente, educato, velocissimo, niente di più». L’altro motivo di celebrazione è Azzurro che compie 50 anni: «Non è nata per fare cagnara in compagnia, poi se ne sono un po’ impadroniti».

POI A DOMANDA specifica si chiama fuori «no, non l’ho mai cantata su un torpedone, soffro di nausea, ma capisco come suore, preti…». Inevitabile un cenno alla canzone e Celentano «che fosse vincente lo avevo capito subito, ma l’ho scritta pensando ad Adriano, il successo lo devo a lui, l’avessi cantata io…». Ma il ragazzo della via Gluck è una presenza assenza «l’avrò sentito tre o quattro volte, lui se ne sta isolato». Poi però, un po’ per vezzo e un po’ sul serio, dice di starsene sempre in campagna e di non avere la radio, se ne sta lì per ascoltare l’amato jazz. Anche se forse preferirebbe ascoltarlo dal vivo perché «il musicista jazz celebra le performance in pubblico come un cantastorie, come un teatrante, il jazzista ti arriva in faccia e ti racconta una storia». E continua a rimanere convinto che le donne non amino il jazz «anche se ora hanno le chiavi di casa, sono più libere di uscire, ma per gli uomini il jazz è come le automobili, l’appassionato vuole smontare vedere, capire…».

IL PIANOFORTE in casa lo suona meno, «ogni tanto una spolverata ai tasti», ha l’impressione che i «cantautori classici fossero più colti dei contemporanei», pur contento del Nobel a Dylan ritiene che in Italia molti «dal punto di vista letterario hanno fornito notevoli materiali». Sui concerti live non può che dire che siano stancanti ma «una serata con i miei musicisti è ben spesa e poi il pubblico sensibile ti sostiene». Già perché il pubblico di Paolo Conte è un pubblico in qualche modo complice che ama il suo lavoro nell’insieme e venera il suo autore. Lui dovendo scegliere tra i tanti brani del suo repertorio predilige «Gli impermeabili per la musica e Genova per noi per il testo». E qui gli si apre un momento particolare «un senso orribile non solo per i genovesi, ma anche per le vittime. Ma la città si tirerà su». Cinquant’anni di Azzurro, ma anche di ’68 «io però non l’ho vissuto, avevo già 30 anni, aiutavo mio padre in ufficio, scrivevo canzoni per altri, tra scartoffie legali e rapporti con gli editori. Poi venivo da una famiglia borghese di provincia, fare l’artista non era una professione» Per questo voleva fare medicina, poi ha dovuto ripiegare su giurisprudenza. Prima di fare l’artista. Grande.