A inaugurare il libro di prosa poetica Portolano di Paola Silvia Dolci, (per Mattioli 1885, pp. 68, euro 14) una alternanza di Tramontana e Grecale nello spazio toscano di Punta Ala, di cui si può inseguire la sinuosa conformazione passando il dito sul suo disegno sottile. Da lì è tutto un osservare: la torre Hidalgo, la torre degli Appiani, il Castello mediceo, un amore di cui si desidera la prossimità e si esplora il ricordo. «Non mi aspetto più niente, ha detto che ci rivedremo». Si srotola cosi il filo di questo pamphlet legandoci tutte al segreto di essere donne, che non sappiamo se attribuire all’educazione o al corpo, che non capiamo se colora o se stinga con l’accrescimento della coscienza e dell’età. Si dipana nel mercanteggiare con l’altro, l’altro-uomo, l’altro-lavoro, l’altro-figlio e anche l’altro-sé stesso, perché a unire noi sorelle è una conformazione mai granitica: nasce e rinasce ogni giorno, sotto l’influsso di qualche luce, nuova ombra o vecchio lascito.

DICE PAOLA SILVIA DOLCI in un documentario del 2015 che «io è solo un modo per dire nessuno in particolare». E definisce il movimento che scandisce l’ondivagare tra i porti, orizzonte dell’ultimo lavoro, spostamento che ci porta «dal piacere alla saggezza», dandoci a intendere, con lo scorrere delle pagine, che quel punto di arrivo, presto, sarà nuovo inizio. Che questa danza è di una donna in mezzo al mare delle cose. Al giorno sei, quando il viaggio è nel vivo, quando l’amante è lontano, il compagno e la loro figlia vicina, arriva il desiderio di altrove che sembra pronunciato da lei, come da tante altre, nello stesso modo: «vorrei vivere qualche mese a Parigi o a Mosca, sola. Senza altra preoccupazione che scrivere e tradurre. Questo slancio è promettente, mi fa pensare che potrei essere felice». Si affaccia alla prua della intelligenza collettiva l’idea di avere tutto in sé, come una barca che va, di avere diritto agli incontri, ma di non essere disponibile ai furti, di rinominare l’amore non come perenne mancanza bensì intermittente presenza, in un’assenza di aspettativa che fa passare leggera, nel corpo, la brezza della propria libertà.

VIVE DI VISIONI, questa scrittrice, dalla biografia inquieta e delicata, ex ingegnere civile, diplomata presso il centro nazionale di drammaturgia, che dirige la rivista «Niederngasse». Ha tradotto Albert Camus, e usa Celine. Ha bisogno di solitudine, ma la nutre il mondo intero. «Tu dici che non faccio un cazzo. Io voglio che tu riconosca che le funzioni poetiche e il sogno di mondi alternativi sanciscono i governi e le rivoluzioni». Abbiamo bisogno, noi, di dichiarare sempre le nostre intenzioni.
E anche Portolano è una intenzione, quella di riuscire a crescere in questa «Italia neofascista che è una fornace», mentre il trambusto del quotidiano «la bambina, il cane» copre le possibili direzioni del vivere, e quando sull’uscio di una relazione si scopre che la debolezza femminile, in un certo senso, consiste nell’essere deboli nel momento sbagliato. Eppure, nonostante tutto, si ha nella tasca un viaggio, nei bellissimi e miserabili antri del Mediterraneo.