«Nella Puglia di un secolo fa la morte di un bracciante era considerata un evento naturale, come la grandine», scriveva lo scrittore Alessandro Leogrande nel romanzo no fiction Uomini e Caporali. A leggere gli atti che riguardano la storia giudiziaria di Paola Clemente, bracciante morta nelle campagne di Andria ormai quasi dieci anni fa, il 13 luglio del 2015, sembrerebbe essere ancora così. Ma andiamo con ordine. Si è concluso il 15 aprile scorso il primo grado di giudizio con l’assoluzione dell’unico imputato, l’imprenditore Luigi Ferrone, proprietario dell’azienda Ortofrutta Meridionale Srl presso cui la donna era impiegata. Qualche giorno fa sono state rese note le motivazioni della sentenza e la Gazzetta del Mezzogiorno ha dato per prima la notizia che la Pubblico Ministero della procura di Trani, Roberta Moramarco, ha deciso di ricorrere in appello, perché ha considerato la decisione del giudice di primo grado che ha assolto l’unico imputato a giudizio, «contradditoria ed illogica».

NEL RICORSO PRESENTATO, infatti, Moramarco osserva che «come riconosciuto dalla sentenza, dagli atti di indagine e dalle consulenze tecniche, risulta pacifica la sussistenza dei profili colposi a Terrone, in ordine all’omessa valutazione dei rischi connessi all’attività di acinellatura». E ancora, si legge: «con particolare riferimento all’omessa informazione e formazione sui rischi specifici per la salute e sicurezza dei luoghi di lavoro per i lavoratori somministrati dalla Infor Group; e anche sull’omessa adozione di provvedimenti di pronto soccorso e assistenza medica di urgenza». Moramarco ha contestato l’esito assolutorio del giudice di primo grado, perché la decisione si sarebbe basata unicamente sull’assenza della prova che le condotte di cui sopra abbiano portato alla morte della bracciante. Quello che è certo, in tutti i casi, finora, è soltanto il contesto di lavoro in cui il decesso è avvenuto.

Paola Clemente sale su un autobus gran turismo alle 3 della notte dal comune di San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto. Insieme ad altri 200 lavoratori sono diretti in contrada Zagaria, ad Andria, a circa 130 km di distanza. Già durante il tragitto, Paola accusa diversi sintomi: una abnorme sudorazione, debolezza e pallore. Ma nessuno dei colleghi di lavoro avverte l’autista del bus al fine di far deviare la propria corsa verso il più vicino pronto soccorso. Forse perché sanno, come lo sa anche Paola, che il lavoro non si può fermare e bisogna giungere in tempo ad Andria.

COME HANNO RICOSTRUITO i carabinieri dello Spesal di Bari che si occupano della sicurezza nei luoghi di lavoro: «l’attività lavorativa svolta dalla Clemente il giorno del decesso consisteva nell’acinellatura, un’attività manuale finalizzata all’eliminazione degli acini sottosviluppati dai grappoli di uva, al fine di ottenere un prodotto esteticamente migliore ed uniforme». E poi, i carabinieri hanno messo nero su bianco anche che il contratto di lavoro a tempo determinato tra l’azienda e Paola prevedeva un impegno dal lunedì al sabato dalle ore 7 alle 13,30 in virtù di accordi presi tra la Ortofrutta Meridionale Srl e l’agenzia interinale Infor Group Spa per la somministrazione di braccianti agricoli. Ma quella mattina del 13 luglio, Paola Clemente e gli altri braccianti sono sui campi già dalle 5,30, un’ora e mezza prima. Così ha raccontato quegli istanti, durante il processo, una delle colleghe della donna, Mariarosaria: «Paola interrompeva il suo lavoro continuamente perché le dava fastidio il sudore che a suo dire era dovuto sempre alla cervicale. Però ogni volta ci diceva che non era niente e continuava a lavorare. È andata avanti così fino alle 7,15, quando abbiamo fatto una pausa per il caffè». E poi, un’altra lavoratrice, Giuseppina, ha raccontato: «insieme a me c’erano Silvana e Isabella, quest’ultima le controllava il polso. Paola aveva gli occhi sbarrati e la lingua in mezzo ai denti. Gli ho aperto la bocca e gli ho tirato fuori la lingua».

IN CONTRADA ZAGARIA, ad Andrtia, dunque, quel giorno non c’era nessuna sorveglianza sanitaria, e quando l’ambulanza è arrivata, alle 8,30, i medici non possono far altro che constatarne il decesso. Per cause naturali. Come le morti nelle campagne che accadevano agli inizi del secolo. In Puglia quell’anno, il 2015, furono più di una. Così che il parlamento fu costretto a prendere provvedimenti, approvando la legge 199 del 2016, così detta contro il caporalato. Una disposizione normativa importante che ha introdotto la possibilità anche di confiscare le aziende. «Ma che tuttavia non sempre viene applicata da parte dei giudici», dice al manifesto Claudio Petrone, avvocato che per la Flai Cgil di Taranto segue diversi procedimenti di questo tipo. «Proprio la mancata applicazione della norma che prevede la confisca delle aziende rende più difficile le denunce» – sottolinea Petrone: «perché i lavoratori, soprattutto quelli italiani, si sentono più ricattati dalla possibile perdita del lavoro, mentre con la confisca delle aziende e con la conseguente nomina di un amministratore straordinario, invece, non rischierebbero il posto».

E, tuttavia, proprio la morte di Clemente, ha fatto emergere l’esistenza di un sistema per cui attualmente si trovano sotto processo, sempre nel tribunale di Trani, sei persone. In particolare, Pietro Bello, responsabile della divisione agricoltura dell’agenzia interinale Infor Group, insieme a Ciro Grassi, sono entrambi accusati di aver organizzato «una attività di intermediazione reclutando braccianti in provincia di Taranto in condizioni di sfruttamento». Grassi, difeso dall’avvocato Salvatore Maggio, è l’autista del mezzo dove viaggiava Paola Clemente, ed è anche imputato di concorso in truffa, intermediazione illecita e sfruttamento di lavoro.

IL SISTEMA FUNZIONAVA COSÌ: Ciro Grassi, insieme alla moglie, il «caporale» e la «fattora», reclutavano i braccianti nel territorio orientale della provincia di Taranto, in particolare tra le donne a basso reddito che vivevano nei comuni di Lizzano, Monteparano, Roccaforzata, San Giorgio Jonico. Successivamente, acquisivano i documenti di identità necessari all’assunzione e li consegnavano ai funzionari dell’agenzia interinale Infor Group. Tutti insieme, poi, frodavano i braccianti, a cui riuscivano, «omettendo il versamento delle giornate», a quasi dimezzare la paga prevista dal contratto nazionale (da 44 euro a 27). È la filiera dello sfruttamento. In questo giudizio sono 118 i lavoratori e le lavoratrici parti lese. Insieme a loro c’è Stefano Arcuri, marito di Paola Clemente, morta di fatica e di sfruttamento nelle campagne pugliesi, e che anche stavolta rischia di non avere giustizia. «Perché molto probabilmente questo processo si concluderà con una prescrizione, magari non ora, ma in secondo grado forse sì», dice l’avvocato Vinci, il legale della famiglia.