Lo ammette: «sono sicuramente una torinese borghese». Ma la definizione, che le appioppavano negli anni Settanta/Ottanta la fa ancora sorridere. Nel 1968, diciannovenne, partì per Cuba, a fare lavoro volontario in una piantagione di caffè ma anche per andare a sentire i comizi di Fidel Castro. Per non parlare del suo lavoro di fotografa indipendente che, dal 1969 e fino al 2002, l’ha portata nel Cile di Allende nel 1970, alla conferenza di Tunisi dei paesi non allineati nel 1973, nel Portogallo della rivoluzione dei garofani nel 1974, alla Conferenza dei partiti comunisti europei nel 1977. E poi in giro per l’Italia a documentare con la sua fotocamera le lotte sindacali, politiche e femministe della seconda metà del Novecento.

Ma nasce borghese, Paola Agosti, a Torino nel 1947, e così si presenta nelle prime righe del suo appassionato libro, Itinerari. Il lungo viaggio di una fotografa (Postcart 2023, a cura di Federico Montaldo, pag. 240, 30 euro) dove le sue riflessioni, gli aneddoti e i tanti ricordi si intrecciano alle immagini in bianco e nero. L’intera seconda metà del Novecento scorre nelle pagine della sua autobiografia, a partire dalla sua famiglia, laica e colta, impregnata di antifascismo e di Resistenza. Suo padre Giorgio, magistrato e uno dei dirigenti di Giustizia e Libertà, era stato un partigiano e poi questore di Torino per nomina del CLN. La madre, Maria Luisa Castellani, ha tradotto autori come Jane Austen, Henry James e George Eliot. A casa loro erano presenze consuete Vittorio Foa, Ada Gobetti, Primo Levi, Norberto Bobbio, Franco Venturi e Alessandro Galante Garrone. Una famiglia in cui a lei e al fratello Aldo sono state date le stesse possibilità e, come racconta Paola, le sue scelte sono state sostenute fin da quando, neppure ventenne, decide di andare a Parigi dove restò oltre un anno e decise di fare la fotografa.

Dopo Parigi si stabilisce a Roma dove si svolge buona parte della sua vita di fotoreporter di cortei sindacali e femministi e di politici della Prima Repubblica: il suo ordinatissimo archivio – circa 360 mila scatti in bianco e nero e 40 mila diapositive a colori – è una miniera. Spiega Paola: «Fin dall’inizio ho tenuto un archivio ordinato, analogico ovviamente, perché ho sempre pensato che la memoria sia fondamentale fin da quando, grazie al sodalizio umano e professionale con Saverio Tutino, sono andata in America latina. Siamo arrivati in Cile tre mesi dopo la vittoria di Allende alle elezioni, avevo 23 anni, ho fotografato Regis Debray mentre lo intervistava. Poi sono andata da sola a Sud per documentare le lotte degli indios mapuches che occupavano i latifondi. E poi i cortei a Santiago a sostegno dell’Unidad popular e i giovani nell’Università Tecnica dove, dopo il golpe, vennero massacrati molti studenti. Salvador Allende mi invitò a pranzo a casa sua con altri giornalisti, l’ho fotografato con il suo cane, anch’io amo molto gli animali. Era un uomo simpatico, umile, umano».

Nel ’72 è negli Stati Uniti con l’amica Liliana Lanzardo, una storica, dove fotografa i quartieri neri e i beatniks. E nel ’77 parte per le zone che Nuto Revelli, amico del padre dagli anni della Resistenza, ha descritto nel suo Il mondo dei vinti, libro che l’ha colpita moltissimo. Raggiunge casolari, monti, uomini e donne, spesso con i loro animali e fotografa «il mondo contadino abbandonato al suo destino dal terremoto dell’industrializzazione, nell’indifferenza dei più», come scrive nel libro. E la fine della civiltà contadina del Piemonte più povero diventa il libro Immagini del mondo dei vinti (Mazzotta, 1978).

Tra tanti progetti, uno dei centri della sua attenzione è stato il mondo delle donne, fin dalla pubblicazione del libro Riprendiamoci la vita (Savelli, 1976), che contiene tantissime foto di femministe, la redazione di Radio donna, i cortei dell’8 marzo e quelli per l’aborto, la Casa delle donne di Roma occupata… E poi le carcerate, politiche e comuni, le lavoratrici in fabbrica, da cui è nato un altro libro prezioso, La donna e la macchina (Ed. Oberon, 1983). E ancora, le scrittrici italiane, oltre cinquanta, per il progetto Firmato donne e i reportage per Noi donne, la rivista dell’Udi.

Nell’83 documenta l’apartheid in Sudafrica insieme all’amica fotografa Margaret Courtney-Clarke. E lì fotografa anche Nadine Gordimer con il suo bracco ungherese. «Era una donna garbata ed elegante, so che ho desiderato, vedendola, di invecchiare come lei. Mi ha regalato due suoi libri, il suo romanzo La figlia di Burger mi ha permesso di capire molto meglio il Sudafrica di quanto avessi potuto farlo nei due mesi di permanenza. Conservo i libri con dedica di moltissimi scrittori e scrittrici che ho incontrato in diversi Paesi».

Dopo aver coperto l’attività politica e sindacale per l’agenzia fotogiornalistica DFP- Document for Press nata nel 1973 e a cui partecipano tanti giovani fotoreporter militanti e di belle speranze (che ben presto decisero che la sigla DFP in realtà significava Difesa Fotografi Poveri) e dopo aver peregrinato per redazioni per vendere le sue foto, Paola, ironica e pragmatica, cambia vita. Nel libro è ben raccontata la vita dei fotoreporter analogici, che lavoravano spesso con due macchine al collo, una per il bianco e nero e una per il colore: andavano a fotografare un politico dopo un comizio o un corteo di protesta, correvano in camera oscura con la pellicola a fare alcuni provini da cui scegliere le foto da stampare e da portare ai giornali. «Roma era caotica già allora, dopo aver fatto il servizio mi precipitavo ai quotidiani e ci trovavo altri fotoreporter con le mie stesse foto da vendere. Una competizione dura da cui sono fuggita e farsi pagare, tra l’altro, non era facile. Meglio i reportage e i viaggi per l’Italia con le giornaliste di Noi donne. Mi trovavo bene, erano felici se scrivevo anch’io, a commento delle foto e aggiungendo qualcosa ai loro servizi, cosa che negli altri giornali non succedeva. Nessuno ci chiedeva un parere».

Concluso il periodo dell’attualità politica, negli anni Ottanta approda al ritratto. Ha fotografato con Giovanna Borgese e anche da sola i grandi protagonisti della cultura europea del ‘900. Nel libro abbiamo i ritratti di Ionesco, di Borges, che gentilissimo le dedica un pomeriggio. All’opposto Claude Lévy-Strauss le mette fretta in modi sgarbati. E troverete tutti i commenti di Paola alle sue foto: Fellini gentile che scherza con lei, Marguerite Yourcenar, che intravede a Venezia in una pizzeria e le chiede se può fotografarla e la scrittrice le risponde di sì affabilmente. «Nel 1971 a Roma mi offrirono di fotografare Andy Wharol. Lo feci senza entusiasmo, ero interessata alla politica, non ai personaggi e tanto meno alla carriera, facevo quel mestiere per sopravvivere e per documentare come cambiava il mondo. Naturalmente oggi le mie foto del giovane Wharol sono tra quelle che si vendono meglio».

Alcune delle sue immagini fanno parte delle collezioni permanenti di vari musei in Italia e all’estero e ha alle spalle sessanta mostre personali e oltre cento collettive nonché decine di libri e premi, ma Agosti non ha smesso di lavorare. Dal 2002, quando è rientrata a Torino con il suo compagno, Zoltan Nagy, un fotografo, ha smesso di fare il suo mestiere di fotografa e fa la curatrice di mostre come quella su Norberto Bobbio o sul padre Giorgio e la lotta partigiana. «Custodire la memoria. Testimoniare. Questo per me è il valore ultimo della fotografia»: sono le ultime parole del suo libro.