Dal momento in cui lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli il pane ha smesso di essere se stesso. Ma andiamo per ordine, cosa avvenne prima di quel giorno maledetto? Il pane, vera unità di misura della fame, era tutto d’un pezzo, estratto dalla fornace e adagiato ancora caldo nelle ceste di vimini: nessuno, prima di quella infausta serata, si era azzardato a fracassarlo e per questo si suppone che la pagnotta, il filo ne, la baghetta, la rosetta, venissero conservati nella forma di partenza. Era possibile morderlo, affettarlo, frantumarlo, farne un sol boccone in una sola bocca, ma mai alcuno lo avrebbe diviso per dare l’idea di un’equità che poi la fame ha messo in discussione.

Non c’è individuo che possa avere fame la metà così come è impossibile avere fame alla quarta: la fame rinuncia all’ennesima potenza, è una, indivisibile, incalcolabile, ineguagliabile e non esponenziale. E quindi che senso avrebbe avuto mortificare il pane se non per ottenere il controllo delle masse? Il colpo di coda avvenne quella sera per via di tredici commensali che affollavano la tavola bandita, mai tavola fu più brigante di quella della cena ultima. Ma facciamo mezzo passo indietro, spezziamo il passo come il pane, il passo, unità di misura dello spostamento sostituito dal metro per criteri volgarmente commerciali. Facciamo mezzo passo alle spalle, fino al giorno in cui venne scoperto il grano: non sembrò vero all’uomo dispotico possedere uno strumento così a buon mercato per ricattare il presente di chi era sottoposto. Prima che nello stomaco, il pane entrò nei modi di dire. «Lo hanno comprato per un tozzo di pane», «Pane per i tuoi denti», «Pan per focaccia» e altri ritornelli che fanno di un alimento insulso e spesso intollerato il fiore all’occhiello della povertà. Nei ristoranti lo servono per primo insieme all’acqua, ai carcerati viene detto che son ridotti a «pane e acqua» e quindi anche noi, nelle migliori trattorie, appena ci sediamo siamo come i galeotti, acqua naturale e pane lievitato. Perché senza lievito non cresce, il lievito è l’equivalente della pubertà, gonfia le palle alla fragranza, fa ingrossare la mollica che si espande nella crosta come belva in gabbia. Il Salvatore prima di spaccarlo lo moltiplicò insieme ai pe- sci: erano le prove della tirannia della fame.

In Russia è nero, in Cina è sostituito dal riso, potevano i cinesi che sono milioni essere rappresentati da un singolo elemento? Il riso è come loro, è tanto e tutto uguale, chicchi infiniti uno appresso all’altro, come le fabbriche, le metropolitane, i marciapiedi di questa umanità che si rompe il culo per ruminare a sera con la bocca piena. Che visione crudele. Mai equivalenza fu più appropriata.

Guadagnarlo sembra un dovere e rovina la vita. Se la vorassi per il pane non lo mangerei, non mi sfamerei con il risultato del mio fallimento. «Chi ha i denti non ha pane, chi ha pane non ha i denti». Ma nessuno ha pensato che c’è gente che ha solo le gengive. Insomma il pane è come la democrazia, ce n’è per ognuno, è come chi cerca di mettere d’accordo tutti sul senso delle cose. Però anche il pane ha il suo tallone, non sfugge nemmeno lui alla digestione e per quanto immacolato finisce nelle tazze ogni mattina. Lungi dall’essere spezzato. E chi lo rompe più quando diventa sterco? Ma forse già lo era, camuffato da derrata, e invece già capestro per impiccare le illusioni della civiltà. Eppure una celebrazione se la sarebbe meritata soprattutto fuori dallo stomaco: «Lo prese, lo spezzò e disse ai suoi molteplici: questo è il pane, prendete e non mangiatene tutti ma intanto guardate come è rassodata la promessa di un futuro migliore». E solo dopo parola allo sciacquone. Preferisco Maria Antonietta che disse: «Se non hanno il pane che mangino brioche». Trattati come gli ani mali, presi per la gola senza sgabello sotto ai piedi.

Il pane ha fatto la fortuna di scrittori, moralisti, della Chiesa e dello Stato. È l’emblema della corruzione. Il potere compra il popolo promettendo la pagnotta. E quindi basta con la retorica della mollica, se non ci fosse saremmo più ambiziosi. «Casa mia, donna mia, pane e aglio vita mia», raramente frase più infame, con la donna a far la parte del contorno intrappolata tra le quattro mura domestiche. «Chi dà il pane ai cani altrui spesso viene abbaiato dai suoi», «Quando è poco pane in tavola tieni il tuo in mano», istigazione all’egoismo balordo. «Pane al pane vino al vino», per annullare la curiosità, «Dove sta un pane, può stare una parola», ma non quando il pane diventa letame, lì tutto tace. «Il pane del povero è sempre duro», perché non conosci il suo cazzo. Altro che grissino della pubblicità, il membro dei senzatetto, indurito dal freddo, può spaccarti la schiena e può ridurre il tonno in olio d’oliva in mille pezzi. Roba da far tremare i colonnelli argentini. «La poesia non da pane», istigazione all’ignoranza, «l’ordine è pane e il disordine è fame», in camicia nera però. «Pane e bucato fanno donna scorrucciata», ennesimo colpo alla femmina umiliata.
Quando è fresco è croccante ma invecchiato si trasforma in corpo contundente, la baghetta è manganello, come il filone, come il velletrano, la rosetta è sasso, la pagnotta è roccia. E non dimentichiamo che la genetica ha dato all’uomo la facoltà di avere qualcosa che indurisce tra le gambe e che va dritta nel culo di chi sta per dare al pane la luce nera della fogna: nel deretano di ogni essere vivente si consuma l’unione tra gli scarti della fame e il desiderio.«Chi vuole pane porti letame», «Il pane non deve mai mancare», e l’utopia? E l’assurdità? Quando verrà istituito un ministero dell’utopia? Perché c’è un ministro dell’agricoltura e non c’è un ministro delle cose impossibili? «Chi ha del pane mai gli manca cane», tutela inutile della proprietà. Come ha potuto il pane spezzato dal figlio di Dio scivolare così in basso? Perché non lievita nell’intestino e scoppia come bomba giapponese? «Senza pane e senza vino l’amore non è nulla»: e lo vengo a sapere così?

«Vivere senza nessun mestiere è la miglior cosa: ma gari accontentarsi di mangiare pane solo, purché non sia guadagnato». È tutto lì il problema.

Pantagruel ospiterà testi inediti di autori italiani e internazionali, in numeri monografici dedicati a temi che intrecciano arti, discipline, saperi. Il primo numero (numero zero) – a cura di Elisabetta Sgarbi e Vincenzo Santochirico, in collaborazione con la Fondazione Sassi di Matera – è dedicato al Pane e sarà presentato nel corso del Festival Terre del Pane a Matera, dall’11 al 20 ottobre a Matera, organizzato e promosso da Fondazione Sassi, in coproduzione con la Fondazione Matera-Basilicata 2019.