Accade nel XXI secolo, in un supposto Paese secolare della Federazione Russa. Sono torturati e uccisi dalla polizia perché omosessuali. O restituiti alle famiglie affinché, divenendo killer dello Stato, si liberino di quel che resta di loro. Il sostrato cinematografico da cui muove Welcome to Chechnya di David France – proiettato ieri al Piccolo Teatro Strehler nell’ambito della 34sima edizione del Festival Mix Milano – non lascia vie di scampo a chi guarda. É impatto crepa oscurità. Perché innanzitutto è incontrovertibilità delle immagini, disvelamento al mondo. Testimonianze dirette di persone sopravvissute a sequestri e sevizie, video intercettati da militanti Lgbtq+, raid di uomini incappucciati, stupri filmati dagli stupratori e immagini di corpi violati. Il tutto nella cornice delle parate militari, col premier Kadyrov e i suoi «cloni» barbuti: la tv lo descrive come fit faithful and ferocious e quando in un’intervista gli chiedono di rendere conto delle persecuzioni dei gay in Cecenia, ride dicendo che nel suo Paese simili subumani non esistono.

Ma la visuale da cui il documentario affronta queste tessere fattuali inattaccabili è quella soggettiva resiliente del Russian LGBT Network, la rete che – dal primo palesarsi delle violenze nel 2017 – ha messo in moto una macchina antagonista di protocolli di sicurezza, di coinvolgimento di tutte le associazioni Lgbtq+ del mondo, e di raccolta fondi per sostenere ogni passo del tracciato verso l’espatrio delle persone perseguitate (151 nei primi due anni dall’inizio delle epurazioni).

Così guardiamo con gli occhi, sentiamo con l’immane forza d’urto di figure come quella del coordinatore David Isteev o della direttora del Centro Lgbtq+ di Mosca, Olga Baranova, con loro in macchina tra le luci gialle delle gallerie, per le strade invase dal cemento della Grozny postbellica, o nei rifugi, quei non luoghi «da qualche parte in Eurasia, o in Russia» dove nascono per qualche settimana piccole comunità di persone recise dalla propria vita, nella continua tensione di essere rintracciate ma anche nel vissuto condiviso, tra un modulo per il visto estero e il cucinare insieme. Con gli attivisti, in tempo reale, viviamo azioni di fuga al cardiopalma, mentre la camera nascosta è un diapason della paura: far espatriare in due ore Anya ricattata dallo zio che le chiede un rapporto sessuale per non rivelare ai suoi che è lesbica (nel Paese, a larga maggioranza musulmana, è più arduo aiutare le ragazze ancora considerate una proprietà).

Mentre la regia accoglie le riflessioni di David e Olga sulle ataviche chiusure patriarcali del Paese, manipolate da Putin con la complicità subalterna di Kadyrov e con la responsabilità negata da entrambi.
É questo connubio deflagrante di cinema e attivismo, una delle cifre distintive del Mix, che ci porta a un passo dal corpo di chi subisce la negazione assoluta di sé, tra i volti modificati digitalmente dei ragazzi e delle ragazze in pericolo, tra i loro nomi fittizi: come Grisha, 30 anni, di nuovo con il suo ragazzo, mentre la madre la sorella i nipotini sono costretti a passare da rifugio in rifugio per le minacce subite. Allora il mosaico delle parti del corpo segnate per sempre dalle torture è una foto da mostrare a chi ami. E dopo aver avuto per primo il coraggio di fare coming out delle atrocità subite – a quel punto Grisha ha il volto vero di Maxim Lapunov che ha eroicamente esposto se stesso per reclamare un’inchiesta prima al governo russo e ora a Strasburgo – le mani si stringono, si cerca il gioco oltre la cappa coatta della tragedia, una vita altrove. Perché – dice Esteev – essere ancora vivi è una vittoria. Da cui protendersi oltre.

E se nelle didascalie a fine film si sottolinea come l’amministrazione Trump abbia negato accoglienza agli esuli ceceni, il Festival Mix ci mostra anche un documentario statunitense come Queering the script di Gabrielle Zilkha, dove si indaga su come nelle serie tv sia sorta e sia in espansione una rappresentanza sempre più dinamica di personaggi Lgbtq+.

Si tratta dunque di un osservatorio parziale, caratterizzato da indistricabili commistioni tra creatività e ragioni commerciali, ma al tempo stesso capace di produrre intriganti riflessi della società americana, nelle sue contraddizioni e nei suoi squarci di futuro in atto. Si dialoga così con sociologi critici autrici autori, si sceverano i meccanismi che legano cinema e tv alla costruzione dell’identità, che favoriscono il coming out e l’accettazione delle famiglie, e soprattutto si analizza l’enorme ruolo giocato dal «fandom», la comunità Lgbtq+ dei/delle fan, talmente partecipe attraverso social, raduni e videocamere con reazione in diretta dal proprio pc, da essere diventata un polo di interlocuzione non più ignorabile dagli autori. Come nel caso della «primavera nera» del 2016-2017 quando, a cominciare dalla morte di Lexa in The 100, si registra una moria di personaggi queer (ma già quelli queer neri morivano a iosa). Da qui la rivolta del fandom («Lgbt fans deserve better»), la raccolta di risorse contro i suicidi degli adolescenti, fino al bloccarsi della tendenza. Si narrano serie come Carmilla, dove si infrange il retaggio del destino tragico, risalente a codici morali anni ‘50, o si mettono in scena personaggi queer di colore o trans o di origine latina… Non rischia però il fandom di venire manovrato dalle proprie frustrazioni? E fino a che punto la rappresentazione delle diversità nelle serie rispecchia concreti mutamenti sociali e politici, reale riconoscimento e non cristallizzazione delle minoranze in quanto tali?

Una cartografia sottile ma per questo potentissima del tasso attuale di oppressione sociale nella provincia francese su due donne settantenni che si sono amate in segreto per tutta la vita – non riuscendo mai una di loro a palesarsi col marito e i figli – emerge in Deux, opera prima di Filippo Meneghetti, una gemma nel parterre sofisticato del Queer Sicilia Film Festival, alla sua X edizione.

Chissà di quante storie così è costellato il secolo precedente a questo. E quello presente? Su questo lancinante realismo del soggetto – il fuoricampo è il peso di ciò che è stato per anni fingersi quelle che non si era – si srotola la vicenda di Nina (Barbara Sukowa), e di Madò (Martine Chevallier della Comédie Française), di fatto conviventi dalla vedovanza di quest’ultima, ma per il mondo dirimpettaie, il loro sogno di una vita insieme a Roma senza più finzioni, e poi, dopo un conflitto per l’ennesimo ritrarsi di Madeleine, l’infarto che la colpisce, la pentola che continua bruciare sul fuoco e un meccanismo che rischia di farla retrocedere ostaggio della cecità della figlia e del figlio, nel buco nero della sedazione forzata delle cliniche e della cancellazione di foucaultiana memoria.

Pure, Meneghetti – grazie a un set teatrale di appartamenti gemelli, al bussare forte con le nocche e a visioni dallo spioncino, da un lato e dall’altro, mentre la figlia di Madeleine e un’ambigua badante cercano di contrastare i protervi tentativi di Nina di ricongiungersi con la donna che ama – sa creare un arazzo di cinema puro, curato nei suoi squisiti dettagli.

Dall’incipit onirico nel parco, col giocare a nascondino tra due bambine che a un certo punto si perdono, alle acque paludose del lago, alla lotta per amore di Nina (Barbara Sukowa indicibilmente brava come la sua partner, ma tutto il cast è ottimo), alla strada di Madeleine per respirare tra i suoi alberi, per rifiutare il gatto che l’ottusità della figlia le ha procurato come surrogato, per essere se stessa. Malgré tout.