Ricorderemo forse per sempre le conferenze stampa delle 18 della scorsa primavera, con la sfilata quotidiana di esperti rigorosamente maschi a sciorinare i dati del giorno su casi, decessi, terapie intensive. Così come le ospitate di virologi, infettivologi, epidemiologi, anche loro rigorosamente maschi, impegnati in virili duelli intorno alle mutazioni di un virus o al numero dei tamponi.

È difficile, invece, ascoltare il punto di vista delle donne sull’epidemia. Eppure, le laureate nelle discipline mediche sono il 58% del totale in Italia. Ma alle posizioni di vertice arrivano in poche, ancora meno quando si tratta di ruoli decisionali. Al massimo, possono recitare il ruolo degli “angeli” di laboratorio, com’è accaduto alle microbiologhe (precarie) dello Spallanzani di Roma. Ma nei laboratori gli “angeli” devono combattere ogni giorno, come ha fatto l’immunologa Antonella Viola denunciando il caso di Pier Paolo Pandolfi nominato a capo del Vimm di Padova nonostante le accuse di molestie sessuali.

Non è un problema solo italiano. Un gruppo internazionale di ricercatrici di dodici università in quattro continenti ha passato al setaccio 115 tra commissioni di esperti, task force, comitati di emergenza incaricati della risposta alla pandemia in 87 paesi del mondo. L’analisi delle ricercatrici, pubblicata sulla rivista BMJ Global Health, ha scoperto che a livello globale i membri di questi consessi sono in maggioranza maschi nell’85% dei casi.

Il massimo squilibrio si raggiunge proprio in Italia, dove il Comitato tecnico scientifico è interamente composto da maschi. È così anche nelle task force di Algeria, Armenia, Benin, Botswana, Iraq, Laos, Lituania, Mali, Myanmar, Filippine, Arabia, Tailandia. Situazione opposta in Albania, Finlandia, Olanda, Svezia, dove le donne rappresentano oltre il 60% dei membri delle commissioni. Complessivamente, la maggioranza dei partecipanti è donna nell’11,5% dei comitati censiti, mentre la parità è rispettata solo nel 3,5% dei casi.

Forse che la medicina è un lavoro per soli maschi? Una tesi difficile da sostenere persino in Italia, dove ai vertici tutti maschili delle gerarchie corrisponde una base in gran parte femminile. Anche all’estero, la classe medica è molto più equilibrata dei suoi vertici: secondo i dati dell’Ocse, nel 2018 le donne rappresentavano il 46% del personale medico, un dato in crescita rispetto al 38% dell’anno 2000.
Quando va bene, alle donne viene riservato il ruolo di esperte, capaci di fornire informazioni accurate. Ma se la task force deve prendere decisioni, allora le poltrone vanno prioritariamente agli uomini. È la situazione degli Usa: qui le donne rappresentano l’82% dei membri del team di risposta del Centro per il controllo delle malattie, che ha un ruolo consultivo, ma solo il 9% della task force della Casa Bianca che prende le decisioni.

Non si tratta solo di recuperare le pari opportunità tra i sessi, sottolineano le autrici della ricerca: sostituire un uomo con una donna non cancella di per sé le dinamiche sessiste del potere. L’omogeneità degli esperti riguarda il genere – non riducibile alla scelta binaria tra maschio e femmina ma a uno spettro di scelte e orientamenti – ma anche l’etnia, la classe sociale, la religione e la disabilità. «Per affrontare le crisi future e operare l’uscita dal Covid-19 in modo equo e sano serve una governance più diversificata e intersezionale», scrivono le ricercatrici.

Che la pandemia sia stata gestita solo da una metà del genere umano è evidente anche nel tipo di risposta predisposto dalle istituzioni. Gli esempi hanno avuto talvolta risvolti comici, come il test rapido sviluppato da un’azienda di Lecco chiamato maldestramente «Daily Tampon», che in inglese sta per «assorbente interno«. Ma più spesso le ricadute sono state drammatiche. «Le misure adottate da molti governi hanno trascurato la maggiore perdita di reddito subita dalle donne e l’aumento delle responsabilità familiari non retribuite», secondo le ricercatrici.

«Spesso le misure non hanno tenuto conto del maggior rischio di violenza domestica e sessuale o della perdita di accesso a servizi sanitari essenziali». Già le epidemie di Ebola e Zika avevano evidenziato «un aumento delle patologie e della mortalità legate alla maternità, delle gravidanze non desiderate e degli aborti praticati in condizioni di insicurezza». Succede, concludono le ricercatrici, quando i servizi sanitari per la riproduzione non sono considerati «essenziali».