Pubblicato in un frangente nel quale «dopo tutto quel che è accaduto, il respiro non dovrebbe più essere un’ovvietà», Virus sovrano (ora in ebook per Bollati Boringhieri, dal 4 giugno anche in versione cartacea) è una sorta di lezione di respiro stretta fra l’urgenza di parola di denuncia dell’asfissia capitalistica, intrecciata con quella del covid-19, e un’ampiezza di temi e spunti che fa di ogni capitoletto una tesi iniziale da discutere, approfondire, sviluppare. Non un diario della crisi, ma la messa in opera di quella prassi che è il pensiero critico – un esercizio nel quale non sempre i filosofi stanno dando buona prova di sé.
Non è il caso di Donatella Di Cesare, per la quale, qualunque cosa si pensi di Heidegger, potrebbe valere l’affermazione che «un altro heideggerismo è possibile». E proprio due categorie heideggeriane, dovendo selezionare fra i molti temi, sembrano centrali nello sviluppo dell’argomentazione: la crisi dell’abitare e la vita inautentica.

L’EVENTO PANDEMICO «dovrebbe spingere a ripensare l’abitare, che non è un sinonimo di avere, possedere, bensì di essere, esistere». Ripensare l’abitare significa ripensare la triplice crisi pandemica, ecologica ed economica nell’epoca del realismo capitalista e dell’Antropocene: un abitare le crisi che precede il virus, ma che a causa sua diventa leggibile in modo chiaro.
Al tempo stesso, ripensare le condizioni in cui si intrecciano il nostro habitat e la modalità con cui lo occuperemo in futuro, alla luce di quella disparità tra protetti e indifesi che la crisi pandemica rende eclatante e sfrontata. Lo sguardo deve farsi in certo modo strabico: il virus concerne l’umanità come tale, ma al tempo stesso i suoi effetti portano i segni della violenza di classe. Per un verso il virus viene «dal fuori», irrompe all’interno del campo del capitalismo finanziarizzato; per altro verso, poiché nel capitalismo globale «non c’è più un fuori», l’azione del virus chiama in causa le disparità, le emarginazioni, gli scarti di un mondo usa-e-getta che sembra non sapere cosa farsene dell’eccedenza.

LA STRAGE DEI VECCHI nei luoghi che avrebbero dovuto consentire l’abitare la loro terza età, ma anche la minaccia sul corpo delle donne chiuse fra le mura (tutt’altro che) domestiche, o del barbone: la promessa di immunizzazione e buona amministrazione – al costo di minore giustizia e solidarietà – mostra tutti i propri limiti. Il corteo di bare esportate in cimiteri fuori confine e la Milano da bere hanno la stessa radice: una politica che credeva, abdicando alle regole del mercato cui ha ceduto sanità, assistenza, scuola, di poter premunire gli «utenti» da ogni imprevisto e si rifugia oggi nella fobocrazia, rafforzata dalla fede cieca nella parola degli «esperti» – bella l’immagine del timoniere di Agamennone, esperto nel condurre la nave ma ignaro del destino cui conduce il suo re – e dalle favole complottistiche che rispondono all’esigenza di credere e spiegare. Si manifesta invece una défaillance della politica, incapace di parlare alla comunità disgregata se non con l’appello alla paura; soprattutto, incapace di aprire lo spazio pubblico già minato dall’abolizione dell’altro e dal mito del corpo come fortezza: una politica capace solo di promettere l’immunità della sfera domestica (peraltro messa a valore e profitto, così come il corpo e le passioni che lo abitano).

DI QUESTA CONDIZIONE fa parte l’eclisse della morte: il tentativo di cancellarla è un tratto caratteristico del capitalismo. Si potrebbe obiettare all’autrice se non sia piuttosto vero che anche la morte è messa a profitto, sotto forma di spettacolarizzazione estetizzante e deresponsabilizzante, ma anche come rendita di una politica che si fa necropolitica, amministrazione del vivere e lasciar morire. Così come si potrebbe obiettare che ridurre la vita in quarantena alla sola inautenticità dell’esistenza fra parentesi priva di progetto appiattisce su una sola dimensione le molteplici temporalità che si danno, e le diverse figure sociali (non tutte costrette in casa) che le hanno esperito – il richiamo alla categoria della noia di Benjamin lo permetterebbe.
Più convincente sembra la conclusione, nella quale Di Cesare chiede di pensare una dimensione comune liberata dal linguaggio dei bilanci e dei calcoli: di sostituire al profitto la cura del mondo. La catastrofe pandemica ci costringe a pensare la nostra convivenza non solo col «virus straniero» esorcizzato dalla xenofobia di Stato, ma anche con gli anticorpi, «stranieri residenti» con cui coabitare nella nostra covulnerabilità: metafora potente, che allude a un mondo da costruire.