La strada che dal posto di blocco 300 passa accanto al campo profughi di Beit Jibrin, alle porte di Betlemme, pullula di attività commerciali, di ogni tipo. Ci sono i ragazzini che vendono tè e caffè agli automobilisti in attesa dei controlli israeliani all’ingresso per Gerusalemme, meccanici, gommisti, minimarket, negozi di souvenir e pub dove è possibile consumare anche alcolici. Poco più avanti ci fermiamo a parlare con Jamal, 56 anni, che farcisce panini in un bugigattolo che con orgoglio chiama ristorante. «Cosa penso delle elezioni israeliane e se sarà meglio senza (il primo ministro Benyamin) Netanyahu? Penso…(riflette in silenzio per qualche secondo) che al Quds (Gerusalemme) è lì, a 600-700 metri dal mio ristorante e che non posso andarci perchè gli israeliani me lo impediscono. Ne abbiamo viste tante in questi anni, ero qui (nel 2002) quando sono arrivati i carri armati israeliani ad occupare Betlemme». «Con o senza Netanyahu – conclude Jamal, porgendoci un falafel pescato dall’olio bollente – per noi fa lo stesso, non cambia nulla».

 

Due facce della stessa medaglia. Agli occhi dei palestinesi, non vi è alcuna differenza tra Likud e Labor, Meretz o gli ultranazionalisti di Habayit Hayehudi. Non importa chi vincerà le legislative israeliane del 17 marzo e se sulla poltrona di primo ministro ci sarà ancora Netanyahu oppure il leader di “Campo Sionista” Yitzhak Herzog. Un giudizio giustificato. Oltre venti anni di negoziati partiti con gli accordi di Oslo del 1993 hanno visto alternarsi governi israeliani di colore diverso senza alcun risultato concreto per le aspirazioni di chi vive sotto occupazione. Inoltre la campagna elettorale israeliana in corso ha ignorato i palestinesi. Netanyahu li ha menzionati solo per indicarli come un pericolo per la sicurezza di Israele. Herzog ha espresso una generica disponibilità a riprendere le trattative con Abu Mazen evitando però di precisare le sue intenzioni, per non alinearsi le simpatie degli elettori. Secondo un sondaggio, il 60% degli israeliani ha come priorità le questioni economiche e sociali, il 19% la sicurezza nazionale e solo il 16% indica la pace come un tema fondamentale.

 

«Il disinteresse dei palestinesi è comprensibile – ci spiega Hamada Jaber, analista del Policy and Survey Research di Ramallah -, non c’è un solo motivo per il quale dovrebbero entusiasmarsi se al potere ci saranno Herzog o la sua alleata Tzipi Livni. Il primo ha già chiarito che non fermerà la costruzione delle colonie ebraiche nei Territori occupati, la seconda è protagonista da anni delle trattative con Abu Mazen e ha mostrato sempre un approccio intransigente». Per molti palestinesi, aggiunge Hamada, «Herzog e Livni sono pericolosi perchè faranno più o meno la stessa politica di Netanyahu e allo stesso tempo avranno dalla loro parte la comunità internazionale che già li considera dei pacifisti». Un unico aspetto delle elezioni israeliane sembra avere importanza per i palestinesi dei Territori occupati: la formazione della Lista Araba Unita. Il fatto che i palestinesi con cittadinanza israeliana, gli arabo israeliani, abbiano avuto la capacità di superare le divisioni, è visto come un successo e un modello per chi vive in Cisgiordania e Gaza dove da anni cadono nel vuoto gli appelli della popolazione ad una vera riconciliazione tra il partito Fatah di Abu Mazen e il movimento islamico Hamas.

 

Diversa da quella della gente comune è la posizione della leadership politica. Se è vero che anche ai vertici dell’Anp e dell’Olp regna un profondo scetticismo verso gli esiti delle legislative israeliane e che le dichiarazioni pubbliche dei dirigenti palestinesi appaiono indifferenti verso il voto di martedì prossimo, allo stesso tempo la possibilità indicata dai sondaggi della fine dei sei anni di regno di Netanyahu comincia a generare aspettative e speranze ai piani alti della politica palestinese. Non bisogna lasciarsi ingannare dal discorso pronunciato venerdì da Abu Mazen alla conferenza economica di Sharm el Sheikh, in cui il presidente palestinese ha affermato che i rapporti con Israele vanno “riesaminati” e ha denunciato il blocco da parte di Tel Aviv dei fondi dell’Anp per diverse centinaia di milioni di dollari che sta affondando il governo del premier Hamdallah. Sul terreno Abu Mazen ha approvato la recente ondata di arresti di decine di attivisti, veri e presunti, di Hamas in linea con la cooperazione di sicurezza con Israele di cui il Consiglio Centrale dell’Olp aveva chiesto l’interruzione. Ashraf al-Ajrami, ex ministro palestinese per gli affari dei prigionieri, ha scritto un articolo per al-Ayyam in cui spiega che «la cosa più importante è che non si faccia l’errore di aiutare Netanyahu con qualche azione (armata) che finirebbe per spingere gli israeliani a votare per lui». Il 12 marzo sullo stesso giornale campeggiava un titolo «Netanyahu nella pattumiera della storia». E se l’ex ministro degli esteri Nabil Shaath, assicura che non sarà non ingranata la retromarcia rispetto all’adesione della Palestina alla Corte penale internazionale tanto contestata da Israele, a mezza bocca qualche funzionario palestinese lascia capire che le mosse dell’Anp si faranno più «prudenti» nel caso in cui sarà Yitzhak Herzog a formare il nuovo governo, allo scopo di capire se il «centrosinistra israeliano sarà disposto ad avviare un negoziato su basi concrete e ad interrompere l’espansione delle colonie».