Il Pakistan si ritrova nuovamente sull’orlo dell’autoritarismo. Dalla vittoria alle urne dell’attuale premier Nawaz Sharif, esponente di punta del partito Pakistan Muslim League-Nawaz (Pml-n), agli scontri di piazza che quest’ultimo weekend hanno lasciato sul campo tre manifestanti, è passato poco più di un anno e mezzo.

E per provare a capire il dissenso popolare guidato dall’ex stella del cricket nazionale Imran Khan (del Pakistan Thareek-e-Insaf, Pti) e, in un connubio quantomai inusuale, dal mullah sufi Tahirul Qadri (Pakistani Awami Thareek, Pat) occorre tornare al marzo del 2013, quando le urne decretarono la vittoria democratica di Sharif, immediatamente accusato da Khan e Qadri di brogli elettorali.

Le accuse, a fasi alterne taciute ma sempre latenti, si sono manifestate in puntuali scontri tra i sostenitori di Qadri e le forze dell’ordine, chiamate a sedare il malcontento. Lo scorso giugno morirono ben 14 manifestanti; reato per il quale una Corte di Lahore ha accusato il premier Sharif, senza che il mandato d’arresto fosse messo in atto.

L’esercito, che in Pakistan storicamente ricopre un ruolo autoassegnato da garante della costituzione – assicurandosi margini di manovra politici ben superiori alla funzione di difesa delle forze armate – è rimasto a guardare, aspettando l’occasione per riproporsi come grande pacificatore nazionale.

Il casus belli si è presentato a metà agosto, quando i sostenitori di Khan e Qadri si sono uniti in una manifestazione oceanica ad Islamabad, chiedendo le dimissioni irrevocabili di Sharif e nuove elezioni «pulite».

Opzione mai presa in considerazione dal premier. Nel giro di quindici giorni le cose sono andate completamente fuori controllo. Nel weekend i manifestanti hanno dato una svolta violenta alla protesta, attaccando i simboli del potere protetti dalle forze dell’ordine: la residenza di Sharif e, in particolare, la sede della Pakistan Television, tv di stato, presa d’assalto da una folla armata di bastoni e pietre.

I manifestanti di Qadri sono riusciti ad occupare il palazzo, facendo sospendere le trasmissioni prima dell’intervento dell’esercito (piuttosto accondiscendente, secondo la stampa pakistana, con le posizioni di Qadri e i suoi).

Intanto, il premier Sharif incontrava il generale Raheel Sharif, capo dell’esercito, investendolo di fatto del ruolo di mediatore tra le parti, a meno di ventiquattro ore da un comunicato delle forze armate che si dicevano «decise a fare la nostra parte nel garantire la sicurezza nazionale».

Le opzioni sul tavolo, al momento, sono: dimissioni di un mese per Sharif e apertura di una commissione d’inchiesta sui presunti brogli, dimissioni irrevocabili e nuove elezioni sotto la supervisione dell’esercito, mediazione politica della Corte suprema pakistana (molto improbabile).

Il premier Nawaz Sharif, che ha ribadito la volontà di andare avanti, ha annunciato che presiederà una sessione parlamentare plenaria nella giornata di oggi. Davanti ai deputati, con ogni probabilità, emergerà tutta la debolezza di un primo ministro alla mercé del potere militare.