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Paesaggi sonori e «techne» di un racconto senza tempo

Paesaggi sonori e «techne» di un racconto senza tempoFabrizio De Andrè

Musica Un mosaico immacolato di tessere antiche e modernissimee, caratterizzano "Crêuza de mä"

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 5 luglio 2024

L’anno orwelliano per antonomasia era stato annunciato dal distopico spot Apple di Ridley Scott, il più orwelliano dei registi; un messaggio urbi et orbi per esortare il mondo a un uso individuale e illuminato della tecnologia: «Il 24 gennaio 1984 Apple presenta Macintosh. E capirete perché il 1984 non sarà come 1984». In quello stesso gennaio i Van Halen si erano affrettati a intitolare 1984 l’album di Jump, conscacrando i sintetizzatori a firma timbrica del soundscape contemporaneo.
Mentre l’industria discografica reagisce alla crisi energetica a colpi di compact disc, l’estasi elettronica sembra digitalizzare anche il linguaggio musicale italiano, polarizzandolo tra l’internazionalismo di Gianna Nannini, Giuni Russo e Garbo e la restaurazione sanremese di Al Bano e Romina.

MA A MARZO, sottovoce, esce un disco spurio che propone un più complesso approccio alla musica e alla stessa tecnologia, nel senso ampio di techne. Un mosaico di tessere antiche e modernissime cesellate da Mauro Pagani e Fabrizio De André rifiutando dell’industria ogni dettame (la Ricordi, si sa, può ascoltarlo solo a pochi giorni dalla consegna). Sulla copertina di Crêuza de mä appare solo il nome del secondo, portandosi dietro aspettative destinate e essere demolite dal primo enunciato musicale di una gajda macedone su bordone di La, la cui modulazione a Re giunge davvero come un panorama marino dopo una tortuosa mulattiera. Verso lo stesso paesaggio sonoro convergono basso, batteria, synth e corde; infine, la voce di Faber. Che però non è la stessa, non solo perché ha cambiato lingua.

PRIMA di gridare alla rivoluzione però bisogna prendersi la briga di tracciare le continuità. Crêuza de mä è l’esito felice di un percorso iniziato da Pagani sin dal debutto solista del 1978, che prepara il terreno alla nuova poetica deandreiana con dialoghi di bouzouki e voce (Argiento, cantata da Teresa De Sio), bordoni orientali (Il blu comincia davvero) e intrecci di corde e batteria (La città aromatica). La virtù di Crêuza de mä non sarà tanto nella fascinazione etnica, ma nel rendere interoperativi strumenti tradizionali e moderni: i primi si adattano alle accordature temperate dei secondi, che in cambio ne accolgono il linguaggio modale. Così è anche per la tecnologia: i synth di Aldo Banfi sono gli stessi dei Van Halen di 1984, eppure suonano completamente diversi.
La musica di Pagani veste il canto di De André con melodie più ampie, modellate dall’ex PFM ben prima di immaginarlo come interprete. Magnifico paradosso: attraverso il genovese antico, ricco di parole tronche, la voce acquista un ritmo moderno, assecondando finalmente gli accenti musicali come fa l’inglese ed emergendo da quel «birignao cantautorale» (Pagani dixit) in cui non ricadrà più neanche col successivo ritorno alla lingua italiana. Anche per questo il grande racconto di Crêuza de mä, non distopico ma ucronico, salgariano più che orwelliano, ci dice ancora oggi che il loro 1984 non sarà mai come nessun altro 1984.

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