A passo di gambero. Un giorno avanza, un altro torna indietro. Renzi, al consiglio europeo, rilancia la strategia choc delle «riforme imponenti» per riavviare la crescita, il ministro dell’economia Padoan intervenuto ieri a Cernobbio rassicura l’Europa che l’Italia proseguirà con il risanamento dei conti e il consolidamento del rigore di bilancio, «condizione indispensabile per lo sviluppo futuro del paese».

Questo gioco delle parti non è solo tra esponenti dello stesso esecutivo, ma è il contenuto della strategia semantica di Renzi che ha detto: «L’Italia non è in conflitto, né è suddita» della commissione Ue e dei suoi dogmi austeri sull’economia. Il «né-né» è una struttura avversativa che mette in contrasto posizioni inesistenti, esclude una realtà alternativa e tradisce l’impotenza. Renzi non può confliggere con l’Europa, e non è un suo suddito, visto che nel 2012 il parlamento italiano ha votato il pareggio di bilancio in Costituzione e ha scelto liberamente di suicidare il paese: tra il 2015 e il 2035 dovrà votare tagli per 50 miliardi di euro all’anno per riportare il debito pubblico dal 133% al 60%.

La bipolarità Renzi-Padoan, tra l’euforia e la depressione tipica di una psicosi che alterna la mania del «fare» del primo in vista delle europee con l’inibizione del secondo, traduce l’umore dell’esecutivo. Padoan ieri ha assicurato che non sarà un «signor No», cioè non inibirà gli slanci euforici di Renzi sulla precarizzazione del lavoro o la modifica dei vincoli europei sul 3% del deficit/Pil, ma ha richiamato la realtà depressiva di un paese dove avverte «il rischio crescente del disagio sociale». Un richiamo di rito, giunti al sesto anno di crisi, visto anche che il clima è cupo e la magistratura è tornata a formulare teoremi fantasiosi contro quello che si muove nell’opposizione sociale.

Sul lago di Como, ieri, Padoan ha però dato una notizia. Nel portafoglio renziano delle riforme (precarietà, delega fiscale, legge elettorale e riforma costituzionale, spending review) ha inserito un appunto aggiuntivo: un altro piano di privatizzazione per ripianare il debito pubblico. Tre mesi fa Letta ne aveva presentato un altro in Qatar. Lo aveva chiamato enfaticamente «Destinazione Italia». Il governo sperava di incamerare 12 miliardi di euro. Pillole rispetto ad un debito di oltre 2 mila miliardi. «Vogliamo accelerare – ha confermato Padoan – perchè oggi l’attenzione dei mercati è crescente». In effetti, c’è un’attenzione crescente per i dividendi che gli intermediari internazionali otterranno dalla vendita di asset statali o beni pubblici, forse non per la riduzione effettiva del debito imposto dal Fiscal Compact.

Il governo continua a sperare che Bruxelles – con una nuova commissione a guida Schultz – conceda qualche flessibilità in più sui patti, in particolare sulle spese per i fondi europei richiesti a gran voce dagli enti locali. Nel 2014 potrebbero essere sbloccati 3 miliardi di euro, l’anno prossimo il doppio. Ci aveva provato Letta, ma fu respinto con perdite nel novembre scorso. I controllori dei conti in Europa avevano osservato l’aumento del debito, il peggioramento della disoccupazione (oggi al 12,9%), il ristagno del Pil (0,6%) e la difficoltà di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015.

Solo la campagna elettorale per le europee può avere spinto Renzi a illudersi. Lo ha riportato sulla terra lo sconfortato presidente di Confindustria Squinzi (che pensa di trasferire l’azienda in Svizzera) secondo il quale «il vincolo del 3% c’è e rimarrà». Nessuna flessibilità all’orizzonte, dunque. La segretaria Cgil Susanna Camusso, presente ieri a Cernobbio, ne ha elogiato la politica sui redditi del solo lavoro dipendente, ma ha condannato la riforma del lavoro come la spending review. Quella che per Padoan non consisterà in «tagli lineari, ma in un’operazione di aggressione delle inefficienze». Oltre al tetto sugli stipendi, ci sarà il blocco del turn-over e degli stipendi nella P.A., tanto per dirne una.

Per Camusso il problema è trovare risorse da investire nel paese, mutualizzando una parte del debito pubblico. Ipotesi che avrebbe bisogno della riscrittura dei trattati europei e della trasformazione dello statuto della Bce. Ma la tecnocrazia guidata da Mario Draghi non sembra essere dello stesso avviso. Confcommercio ieri ha calcolato il costo dell’austerità tra il 2008 e il 2013: le manovre correttive hanno aumentato le tasse di 56 miliardi (+1,6% all’anno), le risorse delle famiglie sono diminuite di 70 miliardi, il loro potere d’acquisto ha perso 11 miliardi. L’una tantum di Renzi sull’Irpef è di 10 miliardi. Troppo poco, troppo tardi.