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Padiglione Barcellona

Padiglione Barcellona

La mostra In esposizione il progetto di Mies van der Rohe che si sarebbe dovuto ricostruire secondo i disegni originali conservati da Mario Ciammitti

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 24 ottobre 2015

Qual è Il Padiglione Barcellona a Bologna annunciato a caratteri cubitali rossi sul manifesto color beige nella tipica tonalità di carta da disegno invecchiata e dove troneggia una croce quadrata? Di che tipo di edificio si sta parlando? Che cosa significa quella croce? Lo scopriremo andando a vedere la mostra alla Galleria Abc (fino al 24 ottobre in via Alessandrini 11) a cura di Alice Zannoni, in cui si racconta Una storia di disegni da Mies van der Rohe a Ruegenberg, come promette il sottotitolo che suona interessante.

Quel padiglione progettato e costruito da Mies van der Rohe, direttore del Bauhaus dal 1930 al ‘33 prima di scappare a New York a causa dell’arrivo al potere di Hitler, rappresentò la Germania all’Esposizione universale a Barcellona nel 1929. Una struttura “semplice, leggera e trasparente” che sarebbe poi diventata l’emblema dell’architettura moderna e Ludwig Mies van der Rohe il capostipite del nuovo movimento. Che cosa c’entra con Bologna? Procediamo con ordine e facciamo un salto nel tempo in avanti. Nell’ottobre 1977 in occasione del Salone internazionale dell’architettura (il Saie, che si svolge tuttora ogni anno nello stesso periodo) fu inaugurato il Padiglione L’Esprit Nouveau di Le Corbusier ricostruito al quartiere fieristico per celebrare la partecipazione della Francia sulla base del suo originale eretto nel 1925 a Parigi. Per alzare il livello di importanza sul piano internazionale di Bologna in quel senso era nata l’idea di ricostruire anche il Padiglione Barcellona di Mies. Giorgio Trebbi, allora direttore dell’Oikos (Centro internazionale di studi, ricerca e documentazione dell’abitare), già curatore della ricostruzione di L’Esprit Nouveau, diede inizio alle ricerche affidandole nel 1980 all’allora giovane ingegnere Mario Ciammitti. “Dopo il primo contatto con l’Archivio Bauhaus e soprattutto con Hans Maria Wingler, allora custode dell’archivio e membro del comitato dei garanti di Oikos – ci racconta – mi ero recato più volte a Berlino per contattare librerie e istituti, onde trovare informazioni e documentazione a partire dal momento della costruzione. I documenti originali che dovevano essere conservati in un capannone della ex-DDR, di fatto non esistevano. Wingler mi aveva quindi offerto alcune fotografie e copie di schizzi di Mies e del suo collaboratore Sergius Ruegenberg, che sono esposte nella mostra”. Com’è arrivato poi ai disegni veri e propri che si possono ammirare fino al più piccolo dettaglio e che lo stesso Ciammitti aveva custodito “gelosamente” nell’archivio personale presso il suo studio? Dopo aver letto la ricca documentazione storica, tra articoli di giornali e altre pubblicazioni dell’epoca, nonché molto di ciò che era stato scritto dopo la demolizione del Padiglione (essendo stato una costruzione temporanea per una fiera), il giovane ingegnere si ritrovò ancor più spaesato dato che quei testi erano spesso contraddittori tra di loro. Durante il suo terzo viaggio a Berlino, Wingler lo mise in contatto con Sergius Ruegenberg. “Avevo letto un articolo molto particolare scritto da lui a proposito della formazione culturale e della personalità di Mies van der Rohe”, precisa l’ingegnere-architetto che della “essenzialità” espressa nel concetto guida di Less is more al centro del pensiero costruttore dell’architetto dalle origini materne olandesi e della grande attenzione al dettaglio ha fatto tesoro a sua volta, usandoli come base strutturale nella sua vita professionale. “Ruegenberg mi aveva invitato a fargli visita e mi ricordo quel giorno in casa sua come uno dei più commoventi della mia vita”, afferma sorridendo Ciammitti, oggi 64enne, “le pareti dell’ingresso, del soggiorno e dello studio della sua casa, dai tratti poco miesiani quanto chiaramente legati all’architettura organica, che oggi verrebbe chiamata bio-architettura, erano letteralmente ricoperte da disegni costruttivi del padiglione Barcelona! Rimasi con lui per l’intera giornata e ci tornai l’indomani per fotografarli tutti”. Li aveva ridisegnati lui, a memoria, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale essendo andati perduti, come tanto altro materiale prezioso, sotto le bombe alleate che avevano posto fine al Terzo Reich nazista nel 1945. “Soltanto lui che aveva seguito sul campo i lavori di costruzione avrebbe potuto essere in grado di rifare i disegni esecutivi di una costruzione talmente ricca di dettagli, aspetto che gli sarebbe stato rinfacciato per molti anni dalla critica, soprattutto da Philip Johnson e Ludwig Glaser”. Tutte quelle informazioni raccolte erano poi confluite nel volume edito da Oikos nel 1983 in occasione di una mostra sul Padiglione all’interno del Saie, a cura di Mario Ciammitti, dal titolo Il Padiglione di “Barcelona” (1929) di Ludwig Mies van der Rohe. “Nel corso di quelle due giornate passate insieme, Ruegenberg mi aveva permesso di rivedere l’intera storia dell’architettura moderna attraverso il racconto della sua vita di studio a fianco di Mies, parlandomi anche delle sue passioni, dei dubbi e delle divergenze di opinioni, dimostrando consapevole rispetto verso il suo maestro. Inoltre accennava alle frequenti discussioni tra Mies e la sua compagna, Lilly Reich (anch’essa attiva collaboratrice nello studio, ndr), a proposito dello sviluppo del Padiglione, del suo arredamento e delle successive costruzioni”. Mies, attento osservatore della realtà sociale, volle costruzioni con arredamenti innovativi ed essenziali che dovevano essere “salonfähig”, ossia “adatti ai saloni” della borghesia tedesca nei ruggenti anni venti, e quindi della giusta eleganza, semplici, leggeri, per far star bene coloro che furono i suoi committenti (basti pensare a Villa Tugendhat a Brno, nell’odierna Repubblica ceca, ristrutturata di recente o alla famosa poltrona “Barcelona” che fece parte dell’arredo del Padiglione e per la cui forma Mies aveva suggerito a Ruegenberg e Reich di rifarsi allo sgabello già realizzato, mantenendo il disegno semplice, a virgola, a favore dello “Schwung” nella linea e non della comodità, per “creare un trono” sul quale avrebbe dovuto sedersi durante l’inaugurazione Re Alfonso XIII). Così come era attento a ogni dettaglio, ripensato e poi corretto nella costruzione successiva, e a prova di ciò Ruegenberg illustrò a Ciammitti anche il prospetto della Weissenhof Siedlung a Stoccarda che dovette ridisegnare centinaia di volte ai fini di trovare il giusto equilibrio della facciata. “Aveva già settantasette anni, quando l’ho incontrato, ma era ancora pieno di energia di fare e l’idea di ricostruire il Padiglione a Bologna l’aveva accolta con l’entusiasmo da bambino, offrendosi da subito a dirigerne i lavori”. Sprizza di gioia, infatti, la lettera scritta a Ciammitti (anch’essa esposta in mostra), in cui Ruegenberg spiega diversi particolari, allegando inoltre il computo estimativo già eseguito sulla base dei prezzi di mercato aggiornati (nella valuta dei vecchi marchi tedeschi). Quel costo risultò troppo elevato, però, e per di più giunse l’opposizione alla ricostruzione sia da parte della fiera di Barcellona che del Moma da New York (presso il quale sono conservate molte foto originali della costruzione e altra documentazione relativa alle attività di Mies van der Rohe), nonché da ultimo l’allora re di Spagna pose il proprio veto e poco dopo nominò tre architetti affidando loro la ricostruzione (eseguita sulla base di quelle foto) dello storico Padiglione nella sua sede originale, Barcellona. Inaugurato nel 1986, è formalmente simile all’originale ma non corrisponde alla tecnologia originale. Fine della storia? No! E’ proprio qui che ha inizio la mostra bolognese: Mario Ciammitti, dopo l’abbandono del progetto, aveva ricevuto in dono ventiquattro dei trenta disegni di Sergius Ruegenberg, perché tra i due oltre al rapporto di lavoro si era sviluppata una bella amicizia e stima reciproca. Entrato in contatto con Alice Zannoni per altre collaborazioni, l’ingegnere-architetto glieli aveva mostrati un giorno essendo curatrice di arti visive e docente di storia del design, e lei, dall’occhio attento, ne ha riconosciuto subito l’importanza, innamorandosene a prima vista (forse perché erano su carta, fatti a mano, già di per se una rarità oggigiorno?), sentendo un richiamo culturale e soprattutto “un dovere nei confronti della storia”, come lei stessa ha sottolineato in galleria.

Si diceva poc’anzi della critica severa nei confronti dell’operato di Sergius Ruegenberg nel rifare i disegni “con troppi dettagli” che disturbavano il principio di costruzione del “less is more” (che si potrebbe tradurre come “la maggior qualità sta nella minor quantità”) e negarono il fatto che la struttura portante e la struttura portata furono distinte, come mai prima era accaduto. Le grandi vetrate a tutta parete, le pareti verdi realizzate con il marmo verde delle Alpi che rappresentò il giardino, due pareti in vetro bianco latte che contenevano le luci, la vetrata verso il giardino in vetro verde bottiglia, la vetrata in vetro grigio topo le tende rosse, la moquette nera sotto la parete di onice giallo miele testimoniano inoltre quel “pensare a colori” praticato da Mies van der Rohe a differenza di tanti altri architetti razionalisti. Ci racconta ancora Ciammitti: “Di qui si comprende anche di come lo stesso Mies faceva tesoro degli errori e dei difetti per migliorare nel tempo i dettagli: quella parete come fonte di luce, ad esempio, non fu mai più riusata perché le ombre da essa prodotte erano troppo lunghe, così come i pilastrini portanti di soli 18 cm per 18 cm (di cui si vede la sezione sul manifesto della mostra, corrispondente al disegno originale, ed ecco rivelata l’origine della forma a croce!; ndr) furono in segutio ridisegnati, perfezionandoli, per l’edificio costruito successivamente nel 1930, Villa Tugendhat”. Sergius Ruegenberg è stato rivalutato come “braccio destro”, anzi “uomo ombra” del grande Mies van der Rohe a partire dal duemila grazie ad alcune mostre sulle sue opere in Germania. La stima e la fiducia esistente tra i due architetti si evince dalle lettere che aprono la mostra di Bologna, dall’allestimento altrettanto “semplice, leggero e trasparente” a cura di Fausto Savoretti, con tavoli bianchi dalla struttura essenziale dotati di superfici piane in plexiglas bianco retro-illuminate con led appositamente studiati per valorizzare i controlucidi originali esposti, affinché possano essere guardati e “letti” dal pubblico: la prima lettera è una sorta di certificato di lavoro a firma di Mies van der Rohe, in cui sono elencati i progetti a cui Ruegenberg aveva collaborato dal 1926 fino al 1930 e alla fine si legge che la loro collaborazione era terminata per motivi organizzativi; nella seconda, redatta nel 1960, lo stesso Mies richiede a Ruegenberg i disegni del Padiglione (segno che era al corrente del rifacimento a memoria da parte del suo ex collaboratore), rassicurandolo al contempo di nominare lui come direttore dei lavori in caso di una eventuale ricostruzione.

Rimane da chiarire il perché quel suo lavoro era stato contestato a lungo dalla critica. Ci dice Mario Ciammitti a proposito: “in mostra c’è anche un foglio dattiloscritto dell’archivio Bauhaus, in cui Wingler parla dei disegni di Ruegenberg, e di qui si possono dedurre i motivi per cui Johnson e Glaeser, soprattutto, furono tanto scettici nei suoi confronti: i dettagli in più, che effettivamente ci sono, secondo me si rifanno al momento della realizzazione di quella struttura, costruita in materiali leggeri visto che doveva reggere soltanto alcuni mesi, o meglio la durata della esposizione universale nel 1929. Nell’atto del ridisegnarla, molto probabilmente Ruegenberg aveva confuso i due momenti, quello del progetto iniziale e quello della sua realizzazione concreta. Certo poteva benissimo trascurare i dettagli iscritti nella sua memoria dall’attuazione pratica per non inficiare la straordinaria importanza del padiglione per la storia dell’architettura moderna, che si reggeva sulle poche foto in bianco e nero, scattate in fase di cantiere e a Padiglione finito”. Di sicuro oltre alla elaborazione teorica ci voleva uno sguardo attento sul piano teorico-pratico per comprendere quella sottile discrepanza tra il progetto e la sua esecuzione, ed ecco da dove nasce l’importanza della mostra bolognese e il grande interesse che sta suscitando nel mondo dell’architettura contemporanea: d’ora in poi l’emblema del modernismo è studiabile sin dalla sua progettazione.

 

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