Albert Serra è un regista che sorprende dai suoi primi film, paesaggi di miti, leggende, fantasie letterarie (Honor de Cavalleria, 2006, rilettura del Don Chisciotte), il divino in un umano semplice – la natività di El cant dels occels (2008). E la storia che affiora nei corpi, come quello di Luigi XIV filmato sul letto di morte (La morte di Luigi XIV, 2016) tra sospiri, merletti e gemiti concentrati nella presenza di Jean Pierre Léaud. Pacifiction, il nuovo film del regista catalano – in sala il prossimo 11 maggio, a Roma nei Rendez-Vous del cinema francese (29 marzo -3 aprile), a Milano, alla Fondazione Prada (con masterclass) il 15 aprile – è una nuova sorpresa che segna un passaggio importante nel suo cinema; un affresco la cui bellezza mai accessoria si fa macchina cinematografica desiderante.

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Cercando un paradiso altrove, ai bordi dell’autofinzioneProtagonista è l’alto commissario della repubblica nella Polinesia francese, De Roller (Benoit Magimel, straordinario), un uomo inafferrabile, che sembra muoversi tra calcolo personale e intrighi politici a suo favore. L’isola è Tahiti, lui indossa sempre un abito chiaro e gli occhiali da sole bluette, sottolineando così il suo essere «straniero», la propria diversità rispetto agli altri pure se è amichevole, e si dichiara legato al luogo. Intorno a lui c’è un universo di avventurieri, giovani donne misteriose e seducenti, portoghesi senza memoria, militari francesi con frenesia bellica, una scrittrice tornata a casa (Cecile Guilbert) in crisi di ispirazione, la bellissima hostess del resort (Pahoa Mahagafanau). Il paradiso di De Roller ha i colori di Gauguin e un’«innocenza» perduta nei rituali recitati per i turisti tra danze tradizionali e tramonti che si confondono con le insegne al neon rosa pallido. Su questo bordo di «verosimiglianze» si muove il regista per costruire la sua rappresentazione del mondo e di ciò che lo immagina, mostrando attraverso il suo protagonista questo Pacifico dove il tempo cola ipnotico. Nella sua paranoia crescente, e sontuosamente barocca, si palesa la contemporaneità, l’aggressione post-coloniale che afferma il suo controllo e cerca di mantenere le antiche geografie nell’autofinzione gentile di sé. La conversazione con Albert Serra è avvenuta lo scorso maggio al Festival di Cannes, dove Pacifiction era in concorso.

Il titolo del film, «Pacifiction», suggerisce l’idea che il paradiso della natura è una messinscena, una finzione attraversata da riferimenti alla storia coloniale, neocoloniale, ma anche al cinema classico.

Volevo realizzare una fantasia nella quale racchiudere il contemporaneo. Filmare la realtà può rivelarsi noioso, cinematograficamente piatto e un po’ borghese, senza sussulti né sorprese per lo spettatore. Per rinnovare l’intensità della percezione si deve distorcerla, così ho cercato di mettere i soggetti politici attuali – che sono presenti nella storia – in un contesto che sfugge alle loro abituali rappresentazioni. Ho scelto un universo esotico, decorativo, che amo perché è davvero nella fantasia, in una vibrazione eccentrica legata soprattutto alla dimensione del noir. I personaggi si muovono in una no man’s land tra il potere oscuro e il popolo: da una parte ci sono coloro che controllano tutto, i soldi pubblici e quelli privati mentre gli altri, la metà dei politici e dei funzionari, sono gente normale, borghesi che si spalleggiano ma con una modalità in apparenza più morbida.

Il protagonista nonostante il suo ruolo risulta infatti piuttosto simpatico.

Mi piace il lato folle del personaggio che è solo in questa no man’s land: comunica con la gerarchia e al tempo stesso grazie alla sua funzione può avvicinare il popolo. Però la sua è una posizione molto ambigua, sin dalla prima scena, quando i nativi dell’isola parlano tra di loro, e senza sottotitoli, lui non comprende, e li osserva con un occhio colonialista. Il film è molto vario da questo punto di vista, scorre come un flusso che è quello contemporaneo in cui ci sono amici, nemici, stato, potere ma non si sa mai con chiarezza chi prende decisioni, di chi è la responsabilità: non ci sono divisioni nette tra buoni/cattivi, e questa ambiguità mi piace, è molto più affascinante, crea il sentimento di una farsa. Del resto era Marx a dire che la storia prima è una tragedia poi una farsa. De Roller è un politico ma sembra sempre preso da altro, anzi sembra non lavorare affatto ma essere in un perenne movimento. Ciò lo rende affabile, anche se esprime l’ambivalenza della politica attuale, dei suoi interessi, della sua opacità. Perché oggi sappiamo che nessuna innocenza totale è ormai possibile.

A proposito: è lui che determina la narrazione, sembra di essere nella sua testa.

Ho deciso che il personaggio di Magimel doveva essere in ogni inquadratura, la storia ci viene raccontata nella sua visione. Questo crea una molteplicità di letture,e una verità molto più sfumata. Come dicevo il protagonista è un politico, indossa il suo vestito bianco che diviene quasi iconico; anche questo si accorda al nostro tempo. Quando parla è un tipo normale ma pensiamo a due figure come Trump e Hillary Clinton, uno è il male, l’altra è il nulla, la questione però è sempre la stessa: cosa preferisci il male o il niente? E forse pure se è nullo o falso questo personaggio dice che a volte è più interessante il «male», finché la paranoia non lo sconvolge.

Perché hai girato a Tahiti?

Per me rappresenta il paradiso. Lavorare lì è costoso però la sua natura è molto riconoscibile, le spiagge, il mare, le palme a cui ho aggiunto l’aspetto meno paradisiaco del presente, la città, l’inquinamento, le discoteche, i militari.

Una scena del film

Che sono una presenza importante nel film.

Sì, e pongono delle domande. C’è chi pensa che sono eroi e servitori della patria, e chi invece li vede come un sinonimo della violenza. Con la guerra in Ucraina si è tornati a parlare del nucleare quotidianamente, la sua minaccia è reale. Nella sua paranoia il mio personaggio fa cenno agli interessi economici legati al nucleare e a come i disastri che provoca vengono monetizzati. Ma questo è il capitalismo.

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Corpo desiderio e potereParliamo del lato noir.

Si racchiude nel concetto della notte, della distorsione del tempo, dei corpi, della morale; in un desiderio strano, nelle discoteche improbabili. Le idee arrivano così, senza una pianificazione. È un po’ come dice la scrittrice nel film quando parla di inventare una lingua straniera per evitare le semplificazioni; è quello che amo fare col cinema, ne abbiamo già molti di esempi in senso opposto. Spesso i film sono didattici come se parlassero ai bambini, e specie negli ultimi anni con l’influenza delle serie televisive: nel piccolo schermo devi capire tutto altrimenti non funziona, c’è un’unica direzione, un significato che deve essere chiaro così da provocare una reazione immediata nello spettatore. Io lavoro in modo contrario, su una forma poetica e una ricerca formale che vogliono disorientare.

Il tempo nei tuoi film gioca un ruolo fondamentale.

Negli anni ho cambiato l’approccio, forse prima ero più innocente. Qui in particolare sono entrato in un tempo che è teso, meno fluido, con delle rotture. Le inquadrature vogliono far sentire il tempo che si snoda, procede per contrasti, in una tensione che sfugge. Non è un tempo solo contemplativo, lascia appunto una sensazione che nella fluidità apre zone di disagio, provoca una tensione fisica, racchiude un lato malsano. E muta repentinamente senza essere ripetitivo. Se prendi invece un film come La morte di Luigi XIV il tempo è dato dal fuoricampo la cui percezione è come una coreografia. Qui provo a evitare il fuoricampo che comunque c’è, narrativamente parlando sono il potere e la popolazione immaginaria, che non volevo descrivere socialmente. Ho evitato ogni cliché possibile del «film-sociale-a-tema», e rendendo fantasmagorici gli abitanti dell’isola ho scelto volutamente immagini che fossero provocatorie, legate a quell’aspetto di finzione del paradiso selvaggio e insieme domestico riflesso di ciò che immaginiamo. Anche il paesaggio è astratto, saturo nei colori ma con un decor che ricorda quello di molti film, uno per tutti Brigadoon. Lì si sentiva che era stato creato in studio, qui il paesaggio è vero dentro a un’idea di finzione che lo scolpisce e lo rende surreale, come se anche noi fossimo il sogno di qualcos’altro.