La «rivoluzione copernicana» di Matteo Renzi è stata un regalo di natale assai sgradito per i lavoratori italiani – specie se giovani – sebbene non contenga due delle «porcate» che i professoroni della destra volevano inserire. Nel primo decreto del Jobs act sul contratto a tutele crescenti che andrà progressivamente a sostituire il contratto a tempo indeterminato – varato alla vigilia di natale dopo un consiglio dei ministri tutt’altro che sereno – dell’articolo 18 rimane solamente un filo flebile ed isolato.

A parte il licenziamento discriminatorio – tutelato dalla Costituzione – il reintegro sul posto di lavoro rimane solo nel caso «in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale». La partenità dell’espressione per l’unica casistica rimasta di reintegro per il licenziamento disciplinare – vanto della minoranza Pd – viene rivendicata dal giuslavorista e parlamentare di Scelta Civica Pietro Ichino: «L’avverbio “direttamente” è stato aggiunto con l’intendimento esplicito di sottolineare che il presupposto per la reintegrazione circa la radicale insussistenza del fatto contestato non possa essere fondata su presunzioni, ma su una prova piena diretta», scrive il professore sul suo blog, contento comunque per l’inserimento – a sorpresa – nel decreto del «suo» contratto di ricollocazione con cui le agenzie interinali private cercheranno di ricollocare i lavoratori licenziati, incassando un voucher in caso di riassunzione.

Lo stesso Ichino è però deluso dal fatto che le pressioni del ministro Poletti – «ha destrutturato dall’interno la riforma più importante del governo» – abbiano portato ad escludere dal testo due provvedimenti a lui – e a Sacconi – molto cari: la cosiddetta opting out (la possibilità per le aziende a cui sia intimato il reintegro di optare per un indennizzo economico) e il licenziamento per «scarso rendimento». In entrambi i casi Matteo Renzi ha spiegato che la decisione è stata presa perché ci sarebbe stato il rischio di «andare oltre la delega del parlamento», come aveva già denunciato il presidente della commissione lavoro della camera Cesare Damiano.

Rimangono invece nel testo due altri provvedimenti molto gravi – già denunciati dal manifesto il giorno precedente il varo – e a rischio incostituzionalità. Il primo riguarda l’allargamento del campo di applicazione della nuova normativa sui licenziamenti anche a quelli di tipo collettivo. Un colpo di mano veramente pesante perché va ad intaccare lo strumento – la legge 223 del 1991 – con cui in questi anni di crisi le aziende, specie quelle più grandi, hanno portato avanti processi di riorganizzazione. Uno strumento che prevede procedure precise per trovare un accordo con i sindacati e ridurre il numero degli esuberi dichiarati usando gli ammortizzatori sociali e – soprattutto – criteri di tutela dei più deboli nell’individuazione del personale da licenziare.

D’ora in poi quindi le aziende potranno in sostanza derogare a queste procedure, arrivando a licenziare chi vogliono, senza il rischio di doverli reintegrare. Il secondo provvedimento riguarda il fatto che la nuova disciplina sui licenziamenti varrà per le imprese oggi non soggette all’articolo 18 perché di dimensioni inferiori alla soglia di 15 dipendenti che supereranno tale soglia: in questo caso il nuovo regime si applicherà anche ai rapporti di lavoro costituiti anteriormente, cambiando quindi ai lavoratori assunti precedentemente il loro contratto in modo surrettizio.

Per il resto, rispetto alle previsioni, il testo non ha diversificato gli indennizzi al variare della grandezza della azienda: tutte pagheranno due indennità al mese con un massimo di 24, lasciando però totalmente aperto il rischio che le imprese incassino gli incentivi per le assunzioni della legge di stabilità, per poi licenziare allo scadere dell’anno, guadagnando nel computo delle due voci: sgravi fiscali superiori all’indennizzo da pagare.

Il governo ha poi varato anche un secondo decreto, quello su una parte dei nuovi ammortizzatori sociali. Un testo tutt’altro che definitivo visto che viene approvato con la dizione «salvo intese» e che – soprattutto – manca ancora di copertura per un importo di almeno 400 milioni. I 16 articoli che disciplinano la «nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego» sembrano una sciarada. Le sigle si accavallano: c’è la Naspi che sostituisce la vecchia Aspi della Fornero, c’è poi l’Asdi – assegno di disoccupazione che sostituisce la vecchia indennità – e infine la Dis-coll, il nuovo ammortizzatore per co.co.co e cocopro.

Di sicuro c’è solo che l’affermazione di Renzi – «allunghiamo l’Aspi a 24 mesi per tutti» – è palesemente falsa: i due anni saranno solo per i pochissimi precari che hanno lavorato senza interruzioni con «contribuzione negli ultimi quattro anni» e si specifica dal «primo gennaio 2017 la durata è in ogni caso limitata ad un massimo di 78 settimane», meno di un anno e mezzo.

I commenti di partiti e sindacati sono variegati. Se Forza Italia sbraita «alla vittoria della Cgil», Ncd e centristi con Maurizio Sacconi parlano di «compromesso», mentre Cesare Damiano stuzzica i compagni di maggioranza e annuncia che «ci batteremo per limitare ai licenziamenti individuali le nuove norme, escludendo quelli collettivi». Tra i sindacati alle critiche di Cgil e Uil fa dà contraltare la Cisl che plaude a molte norme e parla di «testo migliorabile».

Ora toccherà alle due commissioni Lavoro di Camera e Senato esprimere un parere – non vincolante – entro 30 giorni. Poi il governo dovrà decidere se modificare i testi o mantenerli inalterati. Nel frattempo le mobilitazioni del sindacato – come annunciato da Susanna Camusso e Maurizio Landini – andranno avanti.