Era il 23 settembre del 1973 quando Pablo Neruda morì nella clinica Santa Maria di Santiago del Cile. Il bollettino medico ne dichiarò il decesso fornendo come causa la degenerazione di un tumore. Grazie a un’equipe internazionale di esperti, oggi si può invece escludere che il poeta sia defunto per una malattia neoplastica. Questo non significa si possa confermare l’omicidio politico, come hanno sempre sostenuto il Partito comunista e l’assistente personale del Nobel, Manuel Araya. Tuttavia il patologo Aurelio Luna – figura centrale del gruppo di esperti – ha indicato, senza tema di smentita, l’individuazione di una tossina nelle ossa dello scrittore.
Si riaprono così le discussioni sulla morte avvenuta non per cause naturali ma per avvelenamento e si rimettono in gioco le controverse, seppure assai plausibili, accuse che in questi decenni sono provenute dalla famiglia di Neruda (nonostante Matilde Urrutia, sua terza e ultima moglie, non parlò mai di veleno ma escluse si potesse trattare di cancro). Le date intorno a cui il poeta scomparve da questa terra, e la sua adorata Isla Negra (dove dal 1992 è seppellito insieme a Matilde), concorrono certo a una seria presa in carico delle dinamiche effettive, senza facili complottismi: muore infatti 12 giorni dopo il golpe di Augusto Pinochet di cui era un acerrimo oppositore, e poco prima di partire in esilio in Messico, luogo da cui avrebbe certo potuto inasprire la sua già radicale avversione verso lo scellerato regime cileno. Desiderarne la sparizione non sarebbe stato poi così assurdo.
La svolta decisiva per ricostruire quanto avvenne è stata avviata 4 anni fa quando il giudice Mario Carroza autorizzò l’apertura delle indagini e la riesumazione del corpo. Nonostante il deperimento dei tessuti, soprattutto quelli molli, fosse in un legittimo stato di avanzata decomposizione, il gruppo di esperti ha potuto isolare la tossina di cui verrà ulteriormente interrogato il ceppo e le sue componenti entro un anno, tempo che gli scienziati si sono riservati per dare l’esito definitivo sull’avvelenamento o meno.
Se fosse così, oltre a non destare alcuno stupore, si potrebbe annoverare come ulteriore barbarie ordinata da un regime tra i più feroci che il Novecento abbia conosciuto. E inferta a un testimone tra i più lucidi che il Cile abbia conosciuto. «Ho vissuto tanto che un giorno dovrete per forza dimenticarmi – scriveva con placida veggenza Neruda – cancellarmi dalla lavagna: il mio cuore è stato interminabile».