La frase con cui Mario Draghi esclude il suo coinvolgimento nell’imminente corsa per l’elezione del nuovo capo dello stato è inequivocabile: «Non sarò un politico. Il mio mandato come presidente della Bce durerà fino al 2019». Le parole, consegnate al quotidiano economico tedesco Handelsblatt sono chiare e molto distanti dall’arzigogolato linguaggio della politica italiana. E si capisce: il presidente della Bce parla all’Europa prima che all’Italia, e ai suoi nemici tedeschi prima che ai suoi interessati estimatori nostrani. Così l’ampia rosa dei quirinabili ieri ha perso un petalo. In realtà, al di là dei minuetti dei retroscena, Draghi in corsa non era mai stato: Renzi conta su di lui per presidiare la sua linea di resistenza a Bruxelles; sguarnire di un italiano di prestigio l’avamposto dell’Eurotower di Francoforte sarebbe una mossa suicida, persino al netto delle preferenze di Draghi.

Intanto ieri il valzer del Quirinale ha fatto un altro giro. Dopo la notizia che Renzi per ora non vuole incontrare Berlusconi, lasciata filtrare da Palazzo Chigi, Renato Brunetta ha affidato al suo Mattinale un avvertimento: «Prima il Quirinale e poi le riforme». Ma dalle altre correnti berlusconiane arrivano segnali meno bellicosi: serve «un nome di garanzia» o «di pacificazione». In pratica gli azzurri  fedeli a Palazzo Grazioli sono pronti a votare chiunque purché dia garanzie non a Berlusconi (che non ne può avere) ma  di stabilità alla legislatura almeno per il tempo che serve, nelle fantasie del Cavaliere, per riorganizzare partito e coalizione. E queste  garanzie può darle chiunque, politico o finto tecnico (ieri salivano le quotazioni del ministro Franceschini, nientemeno, ma anche quelle del ministro Padoan) purché vicino al premier che votare non vuole e non può.

Ma è qui che  il cerchio non quadra. Una figura vistosamente non «autonoma», parola usata dall’ex segretario  Bersani per dire ’non renziano’, rischierebbe di prendere i voti dei forzisti lealisti ma non quelli delle cinquanta sfumature del dissenso Pd. Le quali finalmente vorrebbero  portare a casa almeno un pareggio dopo mesi di sconfitte, e puntano su un nome che faccia breccia nello sbandato mondo grillino. Che faccia «scouting», per dirla ancora con Bersani: che ci provò nel 2013 uscendone asfaltato. Peraltro anche  stavolta la sinistra Pd non ha migliori possibilità di successo.

Dunque la quadra per ora non c’è. Renzi non può neanche affrontare il dossier senza risolvere prima il suo prologo ovvero il voto sulle riforme. Quella elettorale, che parte al senato il 7  ma non ha ancora trovato una definizione, e subito dopo quella istituzionale alla camera. Le votazioni per il capo dello stato dovrebbero iniziare i primi di febbraio. Per quella data Renzi deve aver portato a casa i sì di entrambe le camere se vuole scongiurare che  le vicende si intreccino e che in parlamento si scatenino  i giorni del caos. Per questo  il 7 riunirà deputati e senatori Pd  cui chiederà un nuovo sforzo di disciplina per evitare la bagarre proprio nei giorni delle dimissioni di Napolitano. Ma anche per evitare a lui stesso di fare figuracce internazionali: mentre le camere discutono Renzi pronuncerà a Strasburgo il discorso di chiusura del semestre Ue (il 13); poi sarà a Davos per il World Economic Forum (il 20 e 21); e a Firenze per il bilaterale Italia-Germania con la Merkel (il 22 e 23).