Il sismografo ovidiano – l’espressione è stata coniata da un grande esperto della ricezione moderna del poeta latino, Theodore Ziolkowski – ha appena fatto registrare un picco di straordinaria intensità, con epicentro Roma. Alle Scuderie del Quirinale si è inaugurata infatti da pochi giorni (e rimarrà aperta fino al 20 gennaio), la mostra Ovidio Amori, miti e altre storie.
L’evento conclude le celebrazioni per il bimillenario della morte del poeta che, per la verità, durano da un paio d’anni: in effetti, benché si sospetti che la sua morte sia avvenuta nel 18 dopo Cristo, San Girolamo, l’eruditissimo dottore della Chiesa, la datava un anno prima, nel 17. Ma questo surplus di celebrazioni della morte è un risarcimento – sempre troppo piccolo – per le sofferenze che ne segnarono la vita. Ovidio cominciò infatti a morire nell’8 dopo Cristo, quando per una colpa mai bene chiarita fu relegato da Augusto all’estrema periferia dell’impero, nella barbarica e inospitale Tomi (oggi Costanza), sulle rive del Mar Nero. Per lui, abituato a vivere nel centro del mondo, fu uno shock terribile, che lo precipitò nella depressione: come se – ha detto un critico – Woody Allen fosse costretto a vivere lontano da Manhattan. È cosa buona e giusta, pertanto, che questo prestigioso omaggio gli sia reso a Roma, la città da lui tanto amata e rimpianta.
Ma l’idea della mostra non parte da Roma, bensì da Padova. Qui da oltre un decennio Francesca Ghedini, archeologa dai vasti interessi, è l’anima di una ricerca collettiva incentrata sul rapporto tra i testi ovidiani e le immagini in cui sono stati tradotti e sull’intreccio con la storia politico-culturale dell’età in cui il poeta operò (della stessa studiosa è peraltro appena uscito per i tipi di Carocci un pregevole Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo, pp. 328, euro 29,00).
Precedute da un’intallazione dell’artista concettuale Joseph Kosuth basata sul potere evocativo della parola ovidiana e da una scelta di codici e incunaboli che tale parola hanno tramandato, le prime sale ci presentano l’Ovidio ‘maestro d’amore’, colui che seppe indagare in tutte le sue pieghe i piaceri e le sofferenze degli amanti, arrivando a trattarne in forma esplicitamente manualistica. Il suo è un erotismo gioioso e libero, che non fa distinzioni di gender: per lui le donne hanno lo stesso diritto degli uomini a godere. Ovvio che tanta audacia facesse storcere il naso ad Augusto, il princeps che aveva indossato i panni del moralizzatore dei costumi. Tanto più che Ovidio non si peritava di trattare in modo irriverente le divinità-simbolo del nuovo regime: di Venere, capostipite della gens Iulia, aveva cantato le tresche adulterine, e di Apollo, che Augusto aveva voluto come suo coinquilino sul Palatino, l’efferatezza con cui aveva massacrato gli innocenti figli di Niobe (sono in mostra le statue dei Niobidi recentemente trovate in una villa di Messalla Corvino presso Ciampino) e il crudelissimo supplizio riservato a Marsia (lo scuoiò vivo).
Il contrasto con Augusto è raccontato a partire dalla famiglia di questi: la figlia Giulia Maggiore, carattere ribelle che trasgrediva ostentatamente le regole di morigeratezza imposte dal padre, e la nipote Giulia Minore, non meno scandalosa della madre e come quella relegata sull’isola di Ventotene. Fu probabilmente l’intimità con quest’ultima a perdere Ovidio. Forse vide qualcosa che non doveva vedere, o ebbe parte in qualche vicenda scabrosa. I versi libertini che aveva scritto certo non lo aiutarono, e così anch’egli fu relegato lontano, molto lontano dalla corte.
Tutto il piano superiore della mostra alle Scuderie è dedicato all’opera su cui si fonda quella fama imperitura che il poeta stesso, senza falsa modestia, si diceva certo di essersi guadagnato: le Metamorfosi.
Il poema non è solo un compendio di mitologia classica: è stato anche, da sempre, una fenomenale macchina iconopoietica. Non a caso è il libro più illustrato, dopo la Bibbia, nella storia dell’arte occidentale. Ne sono nati talvolta testi visuali innovativi rispetto a quello letterario, rispondenti a contesti funzionali diversificati. La mostra ce ne dà più di un esempio significativo.
Manca, si sa, nelle Metamorfosi un centro narrativo. Calvino nelle Lezioni americane parlò di ‘contiguità universale’, di ‘indistinti confini’ tra le forme – umane e non – che non sono che tenui involucri di una essenza comune suscettibile di perenne mutamento. Anche il registro della narrazione muta di continuo, grazie a una panoplia di espedienti retorici che mettono le varie vicende nelle prospettive più diverse. Ne risulta un qualcosa che Calvino definiva ‘anticlassico’ o ‘barocco’, e che altri non esitano a chiamare ‘post-moderno’.
La mostra risponde puntualmente a questa polifonia mediatica e stilistica. Il visitatore può contare, oltre che sui pannelli esplicativi, su una guida d’eccezione: Piero Boitani. Il noto studioso ha firmato infatti un prezioso opuscolo – distribuito all’ingresso – che glieli sunteggia in forma penetrante quanto elegante. Attraversando le sale si incontrano tante vittime illustri di amori infelici, pietosamente trasformate in qualcos’altro: Adone, il bellisssimo giovane amato da Venere, in fiore; Arianna, la principessa sedotta e abbandonata da Teseo, in costellazione; Narciso, l’innamorato della propria immagine riflessa, anche lui in fiore; Piramo e Tisbe, i predecesseri di Romeo e Giulietta, in albero di gelso; e via di seguito, di prodigio in prodigio, in un virtuosistico tour de force, che ha ora intenti edificanti (tanto da favorire, a partire dall’Ovidius moralizatus di Pierre Bersuire del 1340, le intepretazioni in chiave cristiana), ora semplicemente affabulatorî.
Per visualizzare questa sterminata materia sono esposti più di 200 manufatti (gemme, statue, sarcofagi, rilievi, affreschi pompeiani, bronzetti, quadri), di varia cronologia e ambito culturale, in gran parte prestati da musei e istituzioni italiani. Pur non essendo fautori delle opere globetrotters, avremmo auspicato che il panorama si allargasse almeno alla pittura del nord Europa (Rubens è una dolorosa assenza).
Avrebbe arricchito la mostra anche un aperçu sulla fortuna di Ovidio nella modernità. Perché non c’è dubbio che nel Novecento pochi autori classici sono stati più attuali di Ovidio. Il poeta dell’esilio è stato un punto di riferimento importantissimo per autori che l’esilio ebbero a soffrire, come Mandel’stam, Brecht (Ovidio era fra le cose essenziali che portò con sé imbarcandosi per gli Stati Uniti), Brodskij, Tarkovskij. Ben cinque romanzi contemporanei si ispirano a Ovidio: Dieu est né en exil (1960) di Vintila Horia, Il diario di Ovidio (’97) di Marin Mincu, An Imaginary life (’78) di David Malouf, Die letzte Welt (’88) di Christoph Ransmayr e Sulle rive del Mar Nero (’92) di Luca Desiato. Senza contare il delizioso racconto breve di Tabucchi compreso nel suo Sogni di Sogni (’92), dove il poeta sogna di essere trasformato in farfalla, e l’intrigante pièce teatrale Metamorfosi. Il viaggio di Raffaele Latagliata, dove dei passeggeri di una nave scoprono dai racconti di un viaggiatore misterioso che va verso il suo esilio il senso della loro aspirazione a un cambiamento radicale, ma capiscono che il viaggio non avrà mai fine, perché ogni approdo sarà sempre un nuovo punto di partenza.
Si sarebbe potuta anche ricordare la recente pellicola Métamorphoses (2014) del francese Christophe Honoré, in cui gli eroi del mito vestono abiti moderni e agiscono in un flusso narrativo ininterrotto, a scatole cinesi, di puro stampo ovidiano.
Certo, tutto questo è difficile da illustrare in una mostra; ma avrebbe potuto trovare spazio nel catalogo, che pure è eccellente (Arte’m, pp. 312, euro 39,00). Vi sono raccolti saggi originali dei più quotati studiosi di Ovidio e della sua epoca, tra cui La Rocca, Rosati, Zanker, Cieri Via, Tarrant, e anche Barchiesi, che proprio sulla fortuna moderna del poeta già ha scritto pagine importanti.
Ma a questa mostra vanno comunque riconosciuti due meriti indiscutibili: quello di rendere un generoso e simpatetico omaggio a un autore evergreen come Ovidio; e quello di considerare il mito nei termini di Hans Blumenberg: un terminus a quo, l’inizio di una presa di distanza dalla realtà contingente che ci proietta in una realtà altra, tutta da scoprire (o da inventare).