Otto minirecensioni

a cura di SILVIO ALOVISIO

JEAN-LUC GODARD

MARSILIO

Jean-Paul Belmondo, che ha appena ucciso un poliziotto, e Jean Seberg, che vende il “New York Harold Tribune” per strada, passeggiano per i Champs-Elysées. Il clamoroso inizio della Nouvelle Vague – “È il più triste. È un film lacerante. C’è dentro un’infelicità profonda”, dice Truffaut, mentre Resnais ricorda l’eccitata esaltazione di quando con gli altri è uscito dalla sala e si è reso conto che “potevano esserci nuovi modi di riprendere, di legare le inquadrature le une alle altre, di dialogare” – è anche l’avvio della clamorosa avventura cinematografica di un grande talento creativo che in mezzo secolo di storia, da “Passion” a “Il disprezzo”, da “Histoire (s) du cinema” a “Je vous salue, Marie”, arriva a “Adieu au langage”, uno dei suoi ultimi titoli, considerato tra i più complessi e sorprendenti (il più “fauve” dei film di Godard?), dove continua a interrogarsi sulla funzione e la forma delle immagini, nel confronto costante con letteratura, arti visive, musica, filosofia, senza mai trascurare le contraddizioni del nostro tempo e la molteplicità dei dispositivi di ripresa. La sfida continua (pp. 198, euro 12,50).

MICHAEL HANEKE

NON HO NIENTE DA NASCONDERE

IL SAGGIATORE

Sono andato a leggere subito le pagine su “Amour”, forse il capolavoro del grande austriaco, con Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, struggente epopea da camera su “come gestire la sofferenza di una persona cara”. La scelta fondamentale è quella di restare sempre nell’appartamento della coppia, una specie di fortezza. La drammaturgia è tutta interna allo sviluppo della malattia di lei e al rapporto psicologico e comportamentale che lui volta a volta stabilisce. Importante è la sequenza dell’incubo: “Se in un film diamo agli incubi fin dall’inizio un valore simbolico perdono la loro potenza mentale. Il sogno per il sognatore è sempre realtà, bisogna partire da una situazione normale, che sfocia in un incubo”. La sequenza dello schiaffo che Trintignant dà a Riva quando lei sputa la medicina, è, per il regista, “la sequenza più violenta del film”, la più vicina alla realtà: “L’arte per me non è una fuga dalla realtà. Anzi, è il contrario. Con l’arte raggiungi una ricchezza espressiva che ti permette di andare oltre la vita e dirigerti nell’occhio del ciclone. Finché sei nel ciclone non si vede nulla, ma non appena ne raggiungi l’occhio tutto diventa calmo e forse chiaro” (pp. 412, euro 32,00).

GORDIANO LUPI, DAVIDE MAGNISI

CANNIBAL BALLAD. IL CINEMA SELVAGGIO DI RUGGERO DEODATO

IL FOGLIO

Chissà se cinquecento pagine sono poche o troppe per raccontare tutto o quasi tutto su Mister Cannibal, settanta aiuto regie comprese? Grande affabulatore, il maestro di Potenza ancora una volta spiazza i suoi critici, raccontando il set degli anni sessanta, da Roberto Rossellini a Riccardo Freda, da Mauro Bolognini a Antonio Margheriti, da Sergio Corbucci a Carlo Ludovico Bragaglia, e infilando poi una dietro l’altra poco più di una ventina di regie nei generi più diversi, dall’esotico all’avventura, dal parodia-western al poliziottesco con humour, dal mélo al thriller e all’horror, da “I quattro del pater noster” a “Zenobel”, da “Ondata di piacere” a “Uomini si nasce poliziotti si muore” e così via. Se deve la fama a un paio di titoli cannibalici in gara con Umberto Lenzi, in realtà è un grande artigiano a cui piace girare, e si sente, un narratore di singolare abilità nella messinscena dei corpi erotici e dei comportamenti estremi (gli piacerebbe che si dicesse tra Rossellini e Friedkin), senza contare le molte scommesse che ha vinto, da quella della pubblicità, ne ha fatta tantissima, a quella, piena di insidie, del serial tv come “Sotto il cielo dell’Africa”, e ancor prima “Il triangolo rosso” (pp. 510, euro 18,00).

STEFANO IACHETTI

LAURA MORANTE IN PUNTA DI PIEDI

SABINAE/CSC

Quando si fa un libro su un’attrice, esagerare è d’obbligo. È quello che l’autore – abile regista con il grafico e l’editor di un bellissimo album da sfogliare, ma anche da leggere saltando da un box a un inserto, da uno stralcio critico a un aneddoto – fa con il titolo del capitolo sesto. Cito alla lettera: “La giovane attrice italiana più enigmatica, bella e fatale, della quale registi e partner sono stati pazzamente innamorati”. Peccato che la frase incriminata faccia da buttafuori a “Le due vite di Mattia Pascal”, un film tv di Mario Monicelli, tra i meno esaltanti del grande regista a cui Pirandello doveva stare proprio sulle scatole per ridurlo così. Per non parlare poi di Marcello, mai così assente, estraneo, lontano, quasi una performance per telefono di quelle che lui avrebbe amato fare per non affaticarsi troppo. A bilanciare la contraddizione, c’è poi il ricordo che l’attrice ha di Mastroianni, l’intuizione del suo atteggiamento disilluso, doloroso, ferito. Estraneo a ogni forma di divismo. E poi per fortuna, sempre a bilanciare/confermare l’azzardata affermazione di cui sopra, le due splendide pagine, assolutamente geniali, di Gianni Amelio intitolate: “Dite a Laura che l’amo” (pp. 170, euro 22,00).

ENRICO CAROCCI

IL SISTEMA SCHERMO-MENTE

BULZONI

Lo sviluppo delle neuroscienze ha contribuito a porre in termini nuovi i problemi del coinvolgimento emozionale che le teorie cinematografiche classiche non hanno trascurato. Come conferma anche questo libro, in cui sono d’obbligo i riferimenti a Grodel, Plantinga, Stern, Damasio, Shaviro, Gallese. Ma sfilano in esergo anche le teorie di ieri, dalle più lontane alle più recenti. A cominciare da Hugo Münsterberg (“Scopo principale del cinema deve essere rappresentare le emozioni attraverso le immagini”) e Victor Oscar Freeburg (“L’interesse per l’intreccio ci proietta verso effetti anche inaspettati”). Da Béla Baláz (“È come se vedessimo ogni cosa dal di dentro, come se fossimo circondati dai personaggi dei film”) a Siegfried Kracauer (“Nel frequentatore di cinema, l’io come fonte principale di pensieri perde il suo potere di controllo”). Da Maurice Merleau-Ponty (“Il film si rivolge al nostro potere di decifrare il mondo”) a Edgar Morin (“Il cinema è un sistema che tende a integrare lo spettatore nel flusso del film”) (pp. 307, euro 22,00).

a cura di GIOVANNI SAVASTANO

GIAN MARIA VOLONTÉ. RECITO DUNQUE SONO

CLICHY

Subito dopo il saggio del curatore, che non esita a affrontare il nodo centrale della personalissima drammaturgia di un attore irripetibile, sfilano le testimonianze di Carla Gravina (“Quando rivedo Gian Maria nei film per me è un’emozione grandissima. Lo sogno quasi tutte le sere. È stato l’uomo della mia vita. Che emozione, la prima volta che mi ha preso la mano”), Giuliano Montaldo (“Per ‘Sacco e Vanzetti’ ha aderito subito all’idea. Vanzetti era volitivo, mentre Sacco era depresso. Bene, Volonté coccolava Sacco-Cucciolla per tutto il film chiedendogli se avesse bisogno di qualcosa, un tè o altro, per tutta la lavorazione”), Giovanna Gravina Volonté (“Il mare, il vento. Le mie esperienze più intime e forti di convivenza con lui sono state proprio in barca, abbiamo fatto viaggi insieme e sono state esperienze fondamentali per la mia formazione. Nel vento sento ancora mio padre”), Gianni Amelio (“Fra gli attori della mia generazione era forse l’unico che trasmetteva i pensieri e non solo i sentimenti. Quelli tendeva a tenerli nascosti, con un pudore raro sui nostri schermi. Ma aveva il dono unico di far trapelare i segreti, di sedurre l’obiettivo fino a farsi catturare in ogni frazione di secondo”) (pp. 157, euro 7,90).

ELENA MOSCONI

UN CINEMA ‘DOMESTICO’

EDUCATT

Se le proiezioni – da “Entr’acte” di René Clair a “La chenne” di Jean Renoir e via via fino ai film di Chaplin, Stroheim, Fejos, Epstein, L’Herbier, Vidor, Lang, Murnau, Ruttmann – erano cominciate nel dicembre ’26, la serata storica del cineclub di “Il Convegno” di Enzo Ferrieri, Ettore M. Margadonna, Antonello Gerbi è quella dell’aprile 1929 nella sala del settecentesco Palazzo Gallarati Scotti in via Borgospesso, a Milano. Entrando nella sala fin dalla soglia bisognava fare una scelta. Le sedie erano disposte lungo le pareti di destra o di sinistra. Sulla parete di destra un cartello diceva: “Il cinema non è l’arte”, mentre a sinistra nell’altro cartello era scritto: “Il cinema è l’arte”. Nel bel capitolo sulla cinefilia, l’autrice ripercorre la stagione dei cineclub a partire dalla storica serata con cui – secondo Piero Gadda Conti, che la rievoca nel suo “Concerto d’autunno” – nasce la critica cinematografica in Italia che per molti aspetti sarà strettamente collegata al movimento dei cineclub. Naturalmente la storia continua, fino a quando decollerà il cineforum, e oltre, come si può vedere nel fondamentale “Quando il cinema era un circolo” di Virgilio Tosi (pp. 182, euro 13,00).

a cura di FABIO ZANELLO

IL CINEMA DI SERGIO SOLLIMA

PROFONDO ROSSO

Grande conoscitore del cinema americano, su cui ha scritto un libro pionieristico, allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia, autore di testi teatrali di buon nome, Sergio Sollima era un uomo colto e intelligente, un eclettico pieno di curiosità, che ti poteva citare un film hollywoodiano poco conosciuto come uno spettacolo clamoroso di Wanda Osiris. Narratore di gusto classico, dal taglio secco e essenziale, è uno degli artigiani che ha saputo saldare la lezione del cinema hollywoodiano alle tensioni del dopoguerra. Il suo nome è legato alla trilogia “La resa dei conti”, “Faccia a faccia”, “Corri uomo corri”, uno dei momenti più alti dello spaghetti-western politico con grandissime performance di Lee Van Cleef, Gian Maria Volonté, Tomas Milian, che con l’imprendibile péone Cuchillo Sanchez entra nella mitologia nazional-popolare prima di Monnezza. Meno clamoroso il terzetto noir da “Requiem per un agente segreto” a “Città violenta” e “Revolver”, forse il migliore dei tre. Il grande successo arriva con il “Sandokan” tv, l’epopea salgariana di Kabir Bedi e Carole André con ascolti da capogiro, a cui fanno seguito “Il Corsaro Nero” e “Sandokan alla riscossa”, anche in versione cinematografica (pp. 208, euro 24,90).