A dispetto di quell’eclissi del sacro, paventata una sessantina di anni fa dal sociologo Sabino Acquaviva in relazione allo svilupparsi della società contemporanea, permangono nell’arte tracce di sacro, non necessariamente legate a una certa iconografia ufficiale e codificata, ma più spesso affioranti per forme inedite, consciamente o inconsciamente, dall’immaginario più profondo degli artisti. Sono queste tracce, più o meno occultate in alcune ricerche artistiche contemporanee, a costituire il filo principale che unisce le opere esposte in Apocrypha, mostra al MLAC-Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza di Roma (fino al 28 febbraio), curata dallo storico del cristianesimo Gaetano Lettieri, direttore del Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte e Spettacolo, e dalla contemporaneista Ilaria Schiaffini, direttrice del museo.
Apocrifi, infatti, sono i testi sacri non riconosciuti dal canone, dall’autenticità non accertata o dubbia, e pertanto nascosti – a tale senso rimanda la radice greca del termine – proprio per il loro carattere eccentrico e alternativo. Ed ecco quindi raccolte in mostra le suggestioni di sacro prodotte dagli artisti in modo quasi accidentale, ognuno all’interno della propria ricerca formale e poetica. Dove è possibile trovare nelle opere riferimenti diretti a una iconografia cristiana più riconoscibile, questi vengono stravolti nel senso e nella forma. Il San Sebastiano d’après Guido Reni (1970) di Luigi Ontani è l’immagine di un santo, ma trasformata in intersezione tra tableau vivant, autoritratto concettuale e riutilizzo ironico delle figure più conosciute, si potrebbe dire quasi pop, della mistica cristiana. I Santi contrari (1994-2001) o i Cardinali seduti di Giacinto Cerone diventano ennesima occasione di confronto con la scultura novecentesca, e in particolare riflessione su quanto la materia torturata, si essa gesso o legno, possa ancora essere attuale linguaggio espressivo. I fascinosi Santini apocrifi prodotti da Andrea Fogli negli ultimi venticinque anni non sono che un nutrito gruppo di santini e immaginette sacre ma ridipinti, reimmaginati, reinventati visivamente dall’artista attraverso una delicata visionarietà che molto deve a Redon e Savinio, mentre le maternità di terracotta dello stesso artista riportano il soggetto cristiano a una più primitiva, e universale, accezione.
Particolarmente affine a certe dinamiche del sacro si rivela il linguaggio della pittura informale, per il tentativo dell’artista di dare coerenza e chiarezza agli impulsi irrazionali, ed è il caso dei volti di Vasco Bendini – in mostra un Ritratto in nero del 2000 – così dichiaratamente eredi degli Otages di Fautrier, e inerenti quel processo di individuazione di sé nell’altro di natura esistenziale ed etica che per Emmanuel Lévinas aveva implicazioni di trascendenza divina. Bendini, poi, include nei suoi lavori, specialmente quando il lessico informale finisce per percorrere strade poveriste, riferimenti espliciti al mondo sacro, com’è il caso del baluginio d’oro bizantino nascosto tra le pieghe di Icone (1965-’66), o dei ceri di Mille e una notte (1968), o della palma in La palma del martirio (1968). Un tipo di tensione verso l’ineffabile molto diversa da quella informale nutre anche i libri cuciti di Maria Lai, che qui suonano come idee archetipali di libro, pur rammentando i libri liturgici.
Sembra invece una sorta di «ultima cena vuota», per usare le parole del curatore, il grande Studio giallo (2003) di Gianni Dessì – recentemente artefice di un’opera in dialogo con un’aula di Lettere e Filosofia alla Sapienza nell’ambito del progetto di Lettieri Residenze d’artista – in cui la riflessione tra spazio e pittura, in qualche modo memore dei corsi di scenografia di Toti Scialoja seguiti da studente all’Accademia di Belle Arti di Roma, assume un tono austero quasi eucaristico.
Di un altro antico allievo di Scialoja, Bruno Ceccobelli, anche lui con Dessì già protagonista della cosiddetta Nuova Scuola Romana di Via degli Ausoni, sono comprese in mostra due opere suggestive di vaghi rimandi al sacro, e appartenenti rispettivamente al ciclo delle pupille e iridi e a quello delle porte: La porta che porto (2004) e la Gran pupilla (2014) in bitume, che è forse quella dell’occhio di Dio, nella quale è possibile anche riflettersi (la pupilla nell’opera di Ceccobelli è un cristallo nero). Che gli interessi teosofici e spirituali dell’artista si siano volti anche verso il cristianesimo non è più un mistero, da quando qualche anno fa realizzò le illustrazioni per il libro di Benedetto XVI L’arte è una porta verso l’infinito.
Chiudiamo con l’allusione a un inizio: ne L’origine (2022) di Andrea Aquilanti il movimento di una fiamma è proiettato su un gruppo di figure disegnate a matita sulla parete, secondo una prassi tipica dell’artista. Si tratta di un altro tipo di sacralità, e cioè quella del primo atto della pittura che, secondo Plinio il Vecchio, fu inventata da Butade, figlia di un vasaio corinzio, mentre tentava di fermare la silhouette dell’amato proiettata dal fuoco sul muro.
Dotto pendant della mostra, una conferenza di due giorni sugli apocrifi si svolgerà presso il MLAC il 26 e 27 gennaio prossimi.