Torna la questione dell’autore. In musica particolarmente. Chi mette la firma quando lo scritto del compositore non dà all’interprete che indicazioni grafiche, magari bellissime a vedersi come le 193 pagine di Treatise che Cornelius Cardew elaborò tra il 1963 e il 1968? Meglio abolire la firma. Specie se un pianista immenso come Fabrizio Ottaviucci affronta l’impresa mettendo la sua propria inventiva di improvvisatore-pensatore nel concreto esito sonoro. L’impresa Ottaviucci la affronta a puntate. D’accordo con il festival Romaeuropa ogni anno suona (non «esegue», sia chiaro) un certo numero di pagine dell’incredibile testo. Quest’anno all’ex Mattatoio romano è in programma la quinta puntata. La conclusione – se di conclusione di può parlare riguardo un’opera senza inizio e senza fine come questa – ci sarà nel 2023.

Torna la questione dell’autore. In musica particolarmente. Chi mette la firma quando lo scritto del compositore non dà all’interprete che indicazioni grafiche. Meglio abolire la firma

NELLE PUNTATE precedenti Ottaviucci – per scelta sua o seguendo i suggerimenti scritti di Cardew? Non lo sapremo mai – aveva praticato una gran varietà di processi musicali, dai lunghissimi silenzi agli uragani, dalle ballate post-post romantiche ai puntillismi estremi. Sempre con la sua grazia nient’affatto tenera e con una perizia tecnica sbalorditiva. Questa volta sceglie un criterio di relativa uniformità. In circa mezzora di musica ascoltiamo un gioco sugli arpeggi velocissimi e sulle note ribattute in zona ristretta della tastiera. S’intende che gli accordi arpeggiati sono tutt’altro che consonanti. E le ripetizioni non creano affatto un clima simile a quello dei minimalisti. Certi taylorismi (da Cecil) senza violenza sono alcune delle specialità di Ottaviucci in questo viaggio con Cardew e anche nella quinta puntata non dimentica di farcene omaggio. Tecnica super come sempre.

MA QUESTO CONCERTO prevede un altro autore. Immenso come Ottaviucci e Cardew. Il Morton Feldman di Palais de Mari scrive sul pentagramma. Non che sia prescrittivo nei suoi principi di poetica, non potrebbe mai: ci arriva come uno dei più convincenti cantori della libertà espressiva. Ma il testo quello è. Si tratta di interpretarlo con maggiore o minore spregiudicatezza. Ottaviucci ne ha un bel po’.
Palais de Mari è del 1986. Ultima opera per solo pianoforte di Feldman. Un anno prima della morte. Pare che l’idea sia venuta all’autore mentre guardava una foto del Palazzo Regale di Mari, nome di una città importante dell’antica Mesopotamia. Nella foto si vedono le rovine del palazzo in buona parte ricoperte di sabbia, come un velo. E «velata», immersa in una lieve nebbia, potrebbe essere la musica di questo pezzo. Potrebbe, e non sarebbe un errore interpretarla così. C’è un carattere meditativo-sognante di questa meraviglia di impercettibili varianti armoniche (e numerose pur nella «stasi» che appartiene a Feldman)? Forse sì. Ottaviucci preferisce attenuarlo. Non usa il pedale di risonanza per tutto il tempo, come scritto in partitura, e sceglie sonorità misuratamente secche. Un Feldman ancora più grande.