Nel 1970 il pittore madrileno Eduardo Arroyo, personalità invisa al regime franchista che viveva allora la sua estrema senescenza, ideò un rebus derisorio e feroce dal titolo Retrato del enano Sebastián de Morra, juglar de corte nacido en Figueras en la primera mitad del siglo XX.
Si trattava dell’ennesima voce aggiunta a un Indice personale che l’autore andava stilando, dedicato ai maestri della modernità, usciti sconfitti dal confronto con la Storia, dall’ineludibile countdown del tempo ormai trascorso. Già infatti cinque anni prima Arroyo aveva realizzato, in combutta con Gilles Aillaud e Antonio Recalcati, le vignette amare di Vivre et laisser mourir, un’arringa contro l’istituzionalizzazione di Duchamp e della sua opera sulla scena artistica statunitense; accusa a tal punto sbruffona da aver suscitato una reazione perfino nel bersaglio prescelto dalla requisitoria, aduso di solito alla calma assorta dello scacchista. In un’intervista rilasciata a Pierre Cabanne, che lo punzecchiava sull’argomento, questi ribatté sprezzante, definendo l’operazione nient’altro che una mossa pubblicitaria, goffa e sterile.
A dimostrazione della coerenza di un disegno più ampio – nel periodo in cui il paese viveva grazie ai ‘tecnocrati’ una prima, parziale apertura del rigido controllo dittatoriale imposto dalla Guerra Civile – sarebbe poi arrivata la caricatura del buffone Sebastián de Morra concepito sul modello di un capolavoro di Velázquez, fra i tesori celebri del Museo del Prado. Nei tratti di quel volto di triste buontempone Arroyo scelse di inserire il trademark corsivo dell’eccentrico Dalí, e cioè i baffi rivolti al cielo, mentre la casacca pesante è ricamata di indizi di americanizzazione, dal becco di Paperino al simbolo del dollaro. Un simile accostamento poteva rievocare l’anagramma sibilato da André Breton per espellere il collega dal movimento surrealista nel lontano 1939 («Avida Dollars»): e tuttavia, il volto rinsecchito, cadaverico del genio-nano e l’aggiunta di allusioni all’establishment spagnolo, ortodosso rispetto alle imposizioni governative (ad esempio il logo del quotidiano ABC), allargavano la polemica a temi di più scottante attualità.
L’implicazione dell’artista, ideologica tanto quanto biografica, nel disegno dell’«Imperio» proclamato dal Generalísimo dopo il colpo di stato partito dal Marocco, era circostanza notoria, in patria così come all’estero, fomentata dall’eloquenza di Dalí, da sempre incline a proclami e lusinghe iperboliche. Quanto tale implicazione andasse via via tingendosi di una patina funerea, nell’imputridirsi delle strutture di regime e nella mortuaria melancolia del suo catalogo estremo, era un dato che si sarebbe invece chiarito negli anni a venire, quando alle giustificazioni della violenta isteria repressiva dell’ultimo Franco avrebbero fatto seguito testimonianze disperate sul tipo di Llegaremos más tarde. Hacia las cinco.
Sostenuto dalla famiglia sovrana di Juan Carlos, abbacinato dalle gloriose trascendenze del Siglo de oro, perso insomma nelle nebbie di una rêverie museale, l’autore si sarebbe trasformato, nel tortuoso percorso verso la democrazia, in un personaggio vieppiù controverso: e così a durissime vicende esistenziali (la morte di Gala nel 1982, l’amara, improduttiva vecchiaia gestita da avvocati truffaldini e amicizie interessate) avrebbe fatto eco il suo difficile collocamento sulla mappa dell’arte nazionale in un tempo in cui, nel fare i conti con l’eredità pesante di quarant’anni di dittatura, si imponeva – urgenza improcrastinabile – il ricomporre l’orizzonte offuscato di un panorama ‘originario’, redento dall’oscura interruzione del nazional-cattolicesimo.
La Biennale del 1976
Testimonio di quest’impellenza culturale può esser considerato l’apparecchiamento veneziano per la Biennale del 1976, a un anno appena dalla morte del Caudillo, di una ‘mesa de los ausentes’, la tavola di un banchetto di fantasmi, popolato dalle vittime dell’autoritarismo falangista, da Federico Garcia Lorca a Miguel Hernández: e d’altronde nel percorso organizzato fuori dai Giardini sotto all’intestazione militante España. Vanguardia artística y realidad social – un evento ricostruito di recente al Museo Reina Sofía di Madrid (vedi «Alias-D», 2 febbraio 2020) – si scelse di partire proprio dal ricordo del padiglione eretto nel 1937 a Parigi per l’esposizione internazionale, che vide schierati in favore della Repubblica Pablo Picasso, Joan Mirò, Julio González e Alberto Sánchez.
Al fine di valutare lo scivoloso profilo del ‘caso Dalì’ nel frangente storico della transición, al centro oggi in Spagna di interessi accademici e curatoriali, è dunque utile che riesca presso l’editore Casimiro – cui si deve una piccola ma preziosa selezione di curiosità bibliografiche – lo studio sul pittore redatto nel 1982 da Ignacio Gómez de Liaño, scrittore, filosofo, professore universitario il cui interesse per le arti visive si manifestò, fra gli anni sessanta e settanta, in performance ed happening numerosi, rilevanti per la scena sperimentale di quegli anni dalla Castiglia ai Paesi baschi: Dalì (pp. 112, euro 10,00).
Implicato nel movimento della poesia concreta e dell’arte programmata, motore di un’estesa rete di rapporti (dal Sud America alla Germania, dall’Italia all’Inghilterra), Gómez de Liaño fu protagonista di alcuni interventi urbani, al fianco di Alain Arias-Misson, tra cui il poema pubblico A Madrid, che nel 1967 occupò la capitale con la disseminazione di ‘parole’ in spazi focali per l’immaginario cittadino (dalle Cortes al Café Gijón); ma fu anche attivo alle giornate di Pamplona, nel ’72, proponendo la scrittura celeste delle sue Constelaciones aéreas. Da quell’anno si sarebbe poi rivolto, in chiave concettuale, alla tradizione poetica del Seicento, in particolare alla figura del Conde de Villamediana, reimpiegandone l’eredità faconda in una serie conseguente di installazioni, dal Teatro del Olvido, al Teatro del Ojo, fino alla sua Orografía poética.
Intorno a Giordano Bruno
Considerati simili precedenti (da poco discussi anch’essi in una mostra al Reina Sofía), non stupisce che dal 1978 e per almeno un lustro Gómez de Liaño si imponesse fra i frequentatori più assidui della corte del maestro, a Port Lligat e a Figueres, assistendo alla revisione costante del museo che l’artista aveva inaugurato nel ’74 in Catalogna in accordo ideale coi precedenti teorici di Raimondo Lullo e di Giulio Camillo: d’altra parte il giovane intellettuale avrebbe potuto regalare al sodale più anziano, in uno dei primi scambi della loro cordiale intesa, le sue traduzioni da Giordano Bruno, interessate in particolare all’ermeneutica delle immagini simboliche proposta dal pensatore nolano.
Lo stesso libro del 1982 si apre sulla grande scenografia allestita ai piedi dei Pirenei, un ‘teatro della memoria’ che unisce le quinte palladiane dell’Olimpico di Vicenza («il luogo estetico più misterioso e divino», secondo il pittore) ai sepolcri dell’Escorial: e sebbene le chiavi ermeneutiche proposte in volume risultino in buona parte ancora fruttifere, specialmente quelle relative all’ispirazione letteraria della pittura surrealista, è nell’insistenza sull’ossessione mnemonica dell’ultimo Dalí che va riconosciuto il portato rimarchevole dello studio dello scrittore. Nell’identificare in quel labirintico, paradossale monumento una vera e propria macchina del tempo, in grado di riassumere l’intera parabola creativa del suo progettista, Gómez de Liaño sembra infatti alludere a una funzione peculiare dell’opera-mondo ammassata da Salvador nell’arco di oltre sessant’anni. Non a caso l’autore, tornando sull’amico in una conferenza del 1989 (riedita nella raccolta Libro de los artistas), avrebbe celebrato nel catalogo di Dalì un esaustivo compendio del secolo ventesimo, «en cuanto que lo refleja, per sobre todo en cuanto ha contribuito a crearlo y a recrearlo. También, a conjurarlo»; e così facendo avrebbe offerto la ragione conclusiva dell’ineludibilità della sua produzione, pietrificata nelle uova e nelle cupole del sepolcro di Figueres.