L’emergenza del Covid-19 potrebbe aver relegato nell’ombra un’altra crisi sanitaria, forse altrettanto drammatica: quella dei pazienti che, durante la pandemia, non hanno ricevuto cure adeguate e spesso ci hanno rimesso la vita. Adesso che l’ondata del coronavirus si ritira, dalla risacca emergono i dati di questa strage nascosta. In uno studio di prossima pubblicazione, la società italiana di cardiologia ha esaminato la mortalità legata all’infarto durante l’emergenza Covid-19 in 54 ospedali distribuiti su tutto il territorio italiano, a confronto con lo stesso periodo del 2019. Lo studio sarà pubblicato a breve sullo «European Heart Journal». Ma per i lettori de il manifesto lo riassume Ciro Indolfi, docente universitario a Catanzaro, presidente della Società Italiana di Cardiologia e coordinatore dello studio.

Ciro Indolfi

I RICERCATORI HANNO esaminato la settimana 12-19 marzo, quella in cui si è verificato il picco massimo dei contagi in Italia. «Il numero di accessi agli ospedali per infarti nel periodo preso in considerazione si è dimezzato tra il 2019 e il 2020», spiega Indolfi confermando statistiche analoghe rilevate negli ospedali del nord. «La mortalità osservata nei pazienti giunti in ospedale invece è più che triplicata, passando dal 2,8% al 9,7%». I due dati non sono in contraddizione, ma suggeriscono una spiegazione: molte persone con infarto in corso non si sono recate in ospedale e quelle che lo hanno fatto ci sono arrivate in ritardo, e quindi in condizioni più gravi. «Lo abbiamo verificato anche sulla base del tempo che trascorre tra l’inizio dei sintomi e l’intervento in angioplastica, che è aumentato di oltre il 30%» continua Indolfi. Il risultato è che in termini assoluti nel periodo preso in considerazione i morti di infarto negli ospedali sono quasi raddoppiati, anche se i pazienti da curare sono stati di meno.

«LA PRIMA CAUSA DEL RITARDO», sottolinea il medico, «è che molte persone hanno avuto paura di andare in ospedale per paura di contrarre il Covid-19. C’è un dato interessante: abbiamo osservato lo stesso calo sia negli ospedali del nord, effettivamente oberati per il Covid-19, che in quelli del sud dove i posti liberi in ospedale c’erano». Alla diffidenza dei pazienti si è sommata la scarsa tenuta della sanità. «Nel periodo dell’emergenza tutto il servizio sanitario è stato spostato sul Covid-19 e le risorse per le altre patologie sono state ridotte. Il mio reparto di cardiologia, ad esempio, è stato dedicato al Covid-19. Le autoambulanze sono occupate, il medico di base non si trova, gli ambulatori dei cardiologi sono chiusi. Si è perso il contatto con il medico, che spesso è quello che consiglia di chiamare il 118 e andare in ospedale».

IL PROBLEMA NON SI esaurisce con la fine dell’emergenza. Nella fase due, il governo ha promesso di rafforzare la sorveglianza anti-Covid-19 per evitare nuovi picchi epidemici come quello registrato a marzo, ma la coperta è corta: se si spostano risorse nella pur giusta lotta alla pandemia, rischiano di rimanere scoperti altri servizi sanitari, e le malattie diverse dal Covid-19 non stanno ad aspettare. C’è il pericolo che il sistema sanitario non sia più in grado di fornire un servizio all’altezza? «Serve un’iniziativa da parte della politica per rafforzare tutto il servizio sanitario. Bisogna ripristinare i servizi di emergenza. Riaprire gli ambulatori di cardiologia», dice Indolfi. «Da questa tragedia la politica deve trarre un insegnamento. Negli ultimi dieci anni la sanità è stata abbandonata a se stessa. Medici e infermieri sono pagati poco, non si assumono nuovi medici e mancano i posti nelle scuole di specializzazione dove si formano».

OLTRE A ESSERE poche, le risorse vanno anche sprecate. «Un mucchio di soldi si perdono a causa della cosiddetta medicina difensiva: prescriviamo esami inutili e costosi per paura di essere accusati di inerzia dai pazienti. Queste risorse potevano essere utilizzate per costruire ospedali migliori al sud e garantire un servizio sanitario davvero universale». Ma la sanità è organizzata su base regionale. «Il sistema sanitario non può essere regionale. L’autonomia non è stata una buona idea: ha provocato disuguaglianze dal punto di vista della qualità dell’assistenza. Si è polarizzata l’attenzione sul modello sanitario lombardo, che effettivamente dà prestazioni di altissimo livello ma privilegia quelle più remunerative. Mentre le malattie più gravi devono essere trattate localmente. Fortunatamente il sud è stato meno colpito dal Covid-19. Anche se non so se poteva andare peggio che a Bergamo».