«Ora splende il fiore inverso / su rocce taglienti e monti. / Che fiore? Neve, gelo e ghiaccio / che brucia, tortura e taglia: / morti trilli, gridi e fischi / vedo su frasche, rami e verghe; / ma mi tiene verde e gaio gioia / ora che vedo rinsecchiti i vili». Sono i primi stranianti versi di una canzone del trovatore Raimbaut d’Aurenga, che nella lingua provenzale, tanto amata da Dante, suonano così: «Er resplan la flors enversa / pels trencans rancs e pels tertres; / cals flors? Neus gels e conglapis / que cotz e destrenh e trenca, / don vei mortz quils critz e siscles / pels fueils pels rams e pels giscles, / mas mi ten vert e jauzen jois / er can vei sec los dolens crois». E Il fiore inverso I poeti del “trobar clus” è il titolo scelto da Francesco Zambon per la bella silloge, appena uscita presso Luni Editrice (pp. 512, € 32,00), che è dedicata a uno dei capitoli più singolari e più ricchi di sorprese dentro la multiforme e straordinaria esperienza poetica che prende vita nelle corti della Provenza medievale. Nell’Introduzione, dove indaga lucidamente la fenomenologia e la storia dell’audace ricerca espressiva e formale che è il trobar clus, il poetare chiuso, oscuro, Zambon non esita a richiamare l’obscurisme di Gongora, di Mallarmé, dei poeti ermetici italiani. Il volume presenta, con una quarantina di testi – in traduzione e con l’originale a fronte – i principali esponenti del trobar clus: tra tutti spiccano Marcabru, Peire d’Alvernhe, Raimbaut d’Aurenga, Arnaut Daniel. La traduzione è molto felice: vuole essere fedele ai testi, evitando in particolare la tentazione della parafrasi e offrendo invece le spiegazioni necessarie nelle note. È rispettosa, per quanto possibile, della metrica originale; per le rime, di fronte all’impossibilità di riprodurle, «se ne è conservata qualche traccia o “fantasma” anche surrogandole con assonanze e consonanze».

Enigmi e Sacra Scrittura
Un autore chiave nella storia del trobar clus è Marcabru (attivo tra il 1130 e il 1150), che in una esplicita dichiarazione di poetica scrive: «Stimo per certo sapiente / chi comprende nel mio canto / di ogni parola il senso, / come si sviluppa il tema, / che io stesso stento a rendere / chiara una parola oscura». Questo passo e in particolare le ultime parole – «qu’eu meteis sui en erranza / d’esclarzir paraula escura» – sono di difficile interpretazione e la critica è incerta e divisa. Illuminante, davvero decisiva, è l’esegesi di Zambon che, da grande studioso di allegorie e di simboli, riconosce che Marcabru allude qui alla Sacra Scrittura. Leggiamo infatti nei Proverbi: «Ascoltando, il sapiente sarà più sapiente; e comprendendo reggerà il timone. / Considererà il discorso oscuro e la sua interpretazione (parabolam et interpretationem), le parole dei sapienti e i loro enigmi». Il testo oscuro è dunque quello della Sacra Scrittura, e la secolare riflessione cristiana sulla sua comprensione – da Clemente Alessandrino a Origene ad Agostino – costituisce lo sfondo del dibattito medievale sull’oscurità dei testi letterari. In D’aisso lau Dieu, in una splendida e raffinata tessitura, Marcabru mescola tre livelli: l’acerba satira contro i costumi adulteri dei nobili di alto rango, astuti e lussuriosi – paragonati al cuculo, che fa allevare i suoi piccoli nei nidi altrui –, l’orgoglio di chi possiede un giardino chiuso, sicuro da ogni pericolosa erotica incursione, e l’elogio di chi dispiega «astuti sensi» (gignos sens) e «cento colori per scegliere» (cent colors per miells chauzir), il che è applicabile sia al comportamento dei nobili corrotti che alla poetica ermetica dello stesso Marcabru. È una vertiginosa e spettacolare serie di paragoni e di immagini – il pane, il bastone, la scherma, il bosco, i cani, il fuoco e l’acqua – un vero tour de force di arte retorica e di corposa fantasia: «Di astuti sensi / son così ricco / che non è facile beffarmi; / io mangio il pane / soffice e caldo / dello sciocco, e il mio lascio raffermarsi. // Di stocco bretone / e di bastone / nessuno ne sa più di me, o di scherma; / colpisco l’avversario, / poi da lui mi difendo / senza che sappia parare i miei colpi. // Nell’altrui bosco / io caccio quando voglio / e vi faccio guaire i miei due cani; / ed il terzo segugio / balza di fuori / baldo e bramoso di azzannare. // Il mio allodio / è così ben protetto / che nessun altro può goderne; / è così chiuso / da barriere e fossi / che non me lo può invadere nessuno. // Di molti sensi / sono colmo e abbondo, / di cento colori per scegliere; / qui appicco il fuoco, / lì getto l’acqua / con cui so spegnere la fiamma. / Stia in guardia ognuno, / che con quest’arte / io posso vivere e morire: / sono l’uccello / che fa nutrire / agli stornelli i suoi pulcini».
Poetica e lessico di Marcabru si ritrovano in Alegret, in Bernart Marti e soprattutto in Peire d’Alvernhe, che rivendica la necessità di comporre in «parole serrate e chiuse». Ma questa poetica – l’oscurità come velame di sensi simbolici – viene messa in crisi da due grandi figure, quelle di Raimbaut d’Aurenga e di Arnaut Daniel, che cercano la perfezione della forma. In una animata tenzone con Guiraut de Bornelh, che difende il trobar leu, il poetare facile e leggero, Raimbaut parteggia animosamente per un canto clus. Guiraut argomenta così: «Messer Linhaure, ognuno scriva / come gli pare, io non me ne dolgo; / ma, quanto a me, sono convinto / che un canto è più apprezzato e amato / se è chiaro e popolare: / non ve l’abbiate a male se lo dico». A Raimbaut non importa nulla se il canto non si diffonde – «Cosa volgare non è cosa degna. / Perciò si apprezza l’oro più del sale: / vale lo stesso per il canto» – e replica senza esitare: «Guiraut, non voglio che la mia poesia / finisca in tal schiamazzo da piacere / a grandi e piccoli, a cattivi e buoni: / non sarà mai lodata dagli sciocchi, / che ignorano, né gliene importa, / ciò che più è raro e più prezioso».

Parodia dell’amore astratto
A questo «violento sbandamento in direzione della forma», così Zambon, dobbiamo le poesie più memorabili della raccolta, come Ar resplan la flors enversa o, sempre di Raimbaut, il vanto fittizio Lonc temps ai estat cubertz –, una beffarda parodia della concezione astratta e ideale della fin’amor, quella in cui l’amante si accontenta della sola vista e del solo desiderio della donna – come la grandiosa sestina di Arnaut Daniel, Lo ferm voler qu’el cor m’intra, con il magico intreccio delle parole-rima: «La ferma volontà che m’entra / in cuore non la intacca becco né unghia / di maldicente che dannata ha l’anima; / non oso batterlo con ramo o verga, / ma di soppiatto, dove non c’è zio, / godrò gioia in giardino o entro camera. // Se io penso a quella camera / dove a mio danno so che nessuno entra, / tutti, ah, mi sono più che fratello o zio / e non ho membro che non tremi né unghia, / più del fanciullo di fronte alla verga: / tanto temo che troppo sua sia l’anima».
Arnaut Daniel è molto noto – la sua figura domina la scena in Purgatorio XXVI – ma il lettore, con questo libro, avrà la sorpresa e il piacere di incontrare anche Raimbaut d’Aurenga, con i suoi versi irti, magnanimi, affabili e superbi: «Rari, bruniti e tinti detti / intreccio: assorto indago e cerco, / limando, di grattar via / la spessa crosta e la ruggine, / sì che splenda il mio cuore oscuro». «Cars, bruns e teinz motz entrebesc / pensius-pensanz, e’nquier e cerc / consi liman pogues roire / l’estraing roïll ni·l fer tiure, / don mon escur cor esclaire».