«I membri dell’Academy non votano solo il titolo che piace loro di più, ma anche quello che riflette come vogliono essere visti». Così la veterana giornalista (oggi potente blogger) Anne Thompson aveva previsto qualche giorno fa che 12 anni schiavo avrebbe vinto l’Oscar di miglior film dell’anno, prevalendo sul suo principale antagonista, Gravity. Non solo antischiavista (ci mancherebbe, nel 2014!), ma politically correct fino all’asfissia, è l’immagine che Hollywood ha confezionato per se stessa in occasione di questo ottanteseiesimo Academy Award. Un palmarès distribuito con precisione quasi chirurgica, suddiviso tra la celebrazione della migliore tradizione dell’industria hollywoodiana, incarnata da Gravity (che ha vinto sette Oscar: quasi tutte le categorie tecniche più quello di miglior regista per Alfonso Cuaron e di miglior colonna sonora per Steven Price) e la bandiera del cinema d’arte impegnato/didascalico sventolata (a prescindere dai suoi meriti, o demeriti) dal lavoro di Steve McQueen (oltre a miglior film anche miglior attrice non protagonista e miglior sceneggiatura non originale).

Quando, qualche settimana fa, erano usciti i manifesti di Dodici anni schiavo con su scritto «It’s time», è arrivato il momento, quel suggerimento esplicitamente ricattatorio ci era sembrato volgare quasi quanto i poster con Brad Pitt gigante e lo schiavo piccolissimo, inizialmente ipotizzati dal distributore italiano del film. Ma la campagna ha avuto il suo effetto – come notava acutamente DeGenres nel monologo d’apertura: se non vince lui, vuol dire che siamo razzisti.

Tra i due grandi protagonisti della serata, non ha trovato un posto il favorito n. 3, American Hustle, che piace a tutti ma che deve essere stato considerato troppo spensierato per l’occasione. Il rifiuto più clamoroso, però, è stato quello riservato a The Wall of Wall Street, di Martin Scorsese, arrivato tardi (a fine dicembre) nell’interminabile maratona verso la statuetta: si era imposto tra le nomination per la sua straordinaria forza filmica e per le intepretazioni, specialmente per quella di Leonardo Di Caprio (nominato cinque volte non ha mai preso un Oscar; e la maledizione continua). Ma l’ultimo stacco del film di Scorsese – quello su di noi, agnelli che sognano di essere lupi come Jordan Belfort, solo che non osano dirlo – insieme all’esuberanza fisica che elettrizza ogni fotogramma erano troppo destabilizzanti.

Nel 2014, Hollywood non vuole più essere solo stratosfericamente bella e stratosfericamente ricca. Ma anche stratosfericamente buona. Unico «irregolare» sfuggito alle maglie di questo trappolone annuale, in cui lo storico kitsch ha ormai da anni lasciato posto a una vibrazione di consenso generale sgradevolmente, oleosamente, corporate, è stato Spike Jonze, il cui Her (altro film fuori schema, dolce e tristissimo) ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura originale.

Sempre scandalosamente inadeguato quello che succede nella categoria riservata al documentario che, dopo l’omissione totale di un capolavoro assoluto come At Berekley (e il doc di Wiseman non è l’unico ad essere ingiustamente lasciato fuori), ha culminato con la premiazione del più innocuo tra i nominati, 20 Feet from Stardom, di Morgan Neville, sulle back up girls. Torture in Cambogia, guerre segrete in Medio Oriente, la rivoluzione egiziana erano troppo indigesti. Meglio accontentarsi della pizza in scatola.