I capricci del tempo, una pioggerella improvvisa a spettacolo da poco iniziato, non stravolgono i piani ma modificano le prospettive. Che, obbligati attori e spettatori a trasferirsi dalle sedie della piazza alle panche della chiesa, da aperte, come eco che si disperde nell’aria, diventano chiuse, quasi una panoramica da oratorio nell’ora del catechismo. Resta il fatto che la figura di Oscar Romero, quel suo affacciarsi deciso, dopo iniziali tentennamenti, sulle luminose arcate che furono slancio rivoluzionario della latino americana Teologia della Liberazione, non ha bisogno di pulpiti o di microfoni speciali per farsi ascoltare.

La nuova ambientazione dello spettacolo, Il martirio del pastore di Samuel Rovinski, che festeggiava i 70 anni della Festa del Teatro di San Miniato, se toglieva una certa anima popolare alla storia, come nelle intenzioni del regista Maurizio Scaparro che, non a caso, una grande croce di legno sovrastante la scena, apriva l’azione sulle note di El profeta, canzone in perfetta tonalità andina simil Inti Illimani scritta dagli Yolocamba in ricordo di monsignor Romero, conferiva alla stessa una tonalità più asciutta, ecumenica, interna alle dinamiche socio economico politiche che portarono all’assassinio dell’arcivescovo di San Salvador. Era il 24 marzo 1980. Le sue omelie che invocavano la giustizia sociale, la democratizzazione dell’apparato statale, le riforme, che parlavano di libertà, dignità e diritti umani, che incitavano alla resistenza non violenta, denunciando al tempo stesso le torture, le stragi, la feroce repressione messa in atto dal governo e dall’esercito contro il popolo dei campesinos, non passarono inosservate.

Un sicario dei così detti «squadroni della morte», su mandato di Roberto D’Aubuisson, leader del partito nazionalista conservatore Arena, gli sparò un colpo mentre sull’altare alzava l’ostia per la consacrazione. Su quello sparo si chiude la vicenda umana del «prete scomodo» Oscar Romero e la parabola teatrale sbalzata, con nobile efficacia dimostrativa, da Samuel Rovinski, drammaturgo fra i più noti della scena sudamericana di oggi (morto nel 2013). Libero da obblighi agiografici, da santino crocifisso con le stimmate Antonio Salines imprime al suo Romero un tono conviviale e accorato, lucido e riflessivo, da partigiano dei più deboli, una voce che imprime coraggio e speranza, nella pienezza dell’impegno e nella certezza della «resurrezione».