Lawrence Osborne è un giramondo, e nel continuo movimento, nel viaggio, trova il suo scopo e il suo domicilio. Nato nel 1953 in Inghilterra, ha studiato a Cambridge e Harvard, è passato per paesi esotici, da Istanbul a Bangkok, ove sembra che per ora sia fermo. Ha divagato anche tra diversi generi letterari, finché ha trovato il suo, quello glorioso nella tradizione inglese della narrazione di viaggio. Racconta se stesso come un etnologo disimpegnato e generoso di sé agli indigeni curiosi, offeso dal turismo pacchiano degli alberghi di lusso, già nostalgico della città, del fiume, delle sonorità del luogo appena lasciato: quel vivido ricordo lo insidia e si sovrappone alla nuova città appena raggiunta. Cita Baudelaire in apertura di Il turista nudo, Adelphi: «A me sembra sempre che starei meglio dove non sono, e di questa questione del movimento discuto incessantemente con la mia anima». Sempre da Adelphi, nella stessa «Collana dei casi», è uscito Bangkok, in cui premurosamente avverte il lettore che non leggerà uno studio della cultura thai, ma il suo monologo di ragazzo blasé in giro per il grande Disneyland asiatico.
Ma è con Cacciatori nel buio (Adelphi «Fabula», buona traduzione di Mariagrazia Gini, pp. 277, € 19,00) che Osborne fa il gran salto nel romanzo di viaggio: una tela narrativa ben tesa, non incalzante, ma languida e insidiosa, intessuta degli incantesimi e dei veleni del paese reale in cui si svolge questa specie di morality play sui generis: la Cambogia che ha vissuto, dal 1975 al 1979 circa, l’inferno dei khmer rossi, della Kampuchea Democratica, dichiarata marxista-leninista. Prima di entrare nell’aftermath di quell’inferno, l’epigrafe iniziale, tolta da un discorso di Pol Pot, avverte: «Risparmiarvi non costa niente, uccidervi non costa niente», firmato L’Anghar, ossia l’«Organizzazione Rivoluzionaria» o «Suprema», il partito senza volto e senza cervello, un resuscitato, mostruoso Heart of Darkness che superò ogni efferatezza nello sterminio di circa due milioni di innocenti cambogiani.
Ventimila ordigni inesplosi
In questi giorni esce la ristampa del libro di una sopravvissuta, Loung Ung, Per primo uccisero mio padre. Oltre ai ventimila ordigni ancora inesplosi, sono rimasti nell’aria infuocata, nei fiumi limacciosi, nella giungla vellutata, profonda e densa, nella foschia argentea, nelle nubi improvvise che «ascendevano con irresistibile determinazione e lentezza, fantasiosa fatalità e grandiosità nefasta», i resti malefici di quell’insensato genocidio. Alitano in quell’aria anche i sensi di colpa, il fatalismo, il pudore dei sopravvissuti che il delicato buddismo Theravada aveva inculcato. «Ma l’Angkar era più profondo del comunismo; nasceva dal lontano passato».
Osborne ha scritto un singolare, affascinante romanzo storico, storia come sottotraccia tragica incisa su quella terra che i cacciatori calpestano avanzando nel buio senziente, popolato di spiriti vendicativi, in una onnipresente e vigile testimonianza di misfatti imperdonabili. «La caccia in sé era il significato dell’ Angkar». Un barang (straniero) varca il confine con la Cambogia al calare del buio. È Robert Grieve (forse un omaggio a un altro colto vagabondo, Robert Graves), un giovane insegnante inglese, sguardo azzurro ansioso e incerto, capelli biondi con la riga a destra – particolare irrinunciabile per definire un inglese giovane e sofisticato –, ora in vacanza, incurante e annoiato. Il suo inconscio non vigila, è in «un periodo di attesa, o di sonno; prima o poi si sarebbe svegliato e sarebbe partito lancia in resta». Non sa che nel borsone porta il pericoloso simbolo che lo renderà preda di un destino per cui sarà messo a dura prova: duemila dollari (di anni fa) vinti distrattamente nel vicino casinò. Sulla sua strada sono già appostati tre cacciatori: l’indigeno Ouksa, autista e guida, una faccia «liscia, aperta, eppure impenetrabile al cameratismo … i suoi occhi erano lenti e precisi. Non si perdevano un granello di polvere». Lui almeno avverte il suo cliente che il misterioso e vendicativo Ap – un fantasma? uno spirito? – vaga nell’aria in cerca di vittime. «Se l’Ap vede te, forse caccia. Ci credi?». Il cacciatore meno sospetto è un elegante barang americano, Simon Beauchamp, bello, biondo, vestito di bianco con abiti fatti per lui da un ottimo sarto locale. «L’accento era quello aristocratico del New England, leggermente tronco. Soldi, agio e familiarità con le cose inabbordabili». Abita in una bella casa sul fiume insieme all’amata cambogiana Sothea, e si offre di ospitare Robert per la notte.
Il nobile Ottuplice Sentiero
A questo punto il romanzo storico cede il passo all’altra ambizione del narratore: farne uno psicodramma che di quella terra ripercorra il dimenticato iter morale, il Nobile Ottuplice Sentiero del buddhismo che esigeva l’inderogabile ed esatta rettitudine di azione e di pensiero. Non l’hanno seguito i tanti barang bianchi in fuga dall’Occidente, finiti anonimi cadaveri, derubati anche all’obitorio. Erano i nipoti degli hippie degli anni sessanta, ma non avevano lo stile dei loro nonni; adesso erano borghesi disoccupati e non apparivano più così formidabili, degni di rispetto ai nuovi cambogiani. Per uno sgambetto dell’Ap maligno, Robert deve indossare i vestiti e nascondersi sotto il nome di Simon Beauchamp, e come lui, si lega a una bella e accorta ragazza cambogiana, Sophal. Il suo passato inglese si allontana gradualmente sotto quel sole bollente, evapora dal corpo stremato e dal cervello intorpidito dall’alcol e dalle droghe. La tristezza dell’Inghilterra sta nella sua pesante memoria, riflette Robert, nell’ombra di stanchezza che l’avvolge, «una sorta di rifiuto a vivere violentemente e intensamente; moralista con compiacimento». Si è fatto più sensibile a quanto lo circonda e a volte è illuminato da misteriosi lampi di felicità; pensa di essere più affine ai khmer. Ma sta sulle sue tracce il più pericoloso dei cacciatori, l’energico poliziotto Davuth, ex-contadino, cresciuto dai khmer rossi. Quando era diventato un kamabhipal, un soldato adolescente, aveva visto i ricchi e i colti professionisti della vecchia generazione schiacciati a morte, le gole tagliate con fronde di palma. Per mesi era stato in un campo segreto nella foresta, dove gli avevano insegnato metodi nuovi. «Aveva imparato a infilarsi sotto gli assiti per sentire le conversazioni degli abitanti dei villaggi. Il giorno dopo potevano essere denunciati, trascinati nel fiume e fatti a pezzi coi machete. I corpi scendevano a valle». Ormai è sicuro di mettere le mani sui duemila dollari, eliminando l’innocente Robert; ma il dharma lo condanna, e finisce anche lui a pagare il suo debito di morte. Un imprevisto tiro mancino dell’Ap che Robert para magnificamente, compiendo il decisivo passo sul Nobile Ottuplo Sentiero, e siamo all’ultimo cacciatore, stretto tra le spire della sua tragica decisione.
Intanto sulla Cambogia si profilano le piogge e i fulmini silenziosi della stagione secca, si leva la minaccia della nuvole stregonesche «che facevano pensare ai demoni e agli spiriti». La foto di copertina di John Vink, buio su Kep, non rassicura.