Nell’arco di un quarantennio – fra il 1968 e il 2008 – Cesare Orselli ha scritto una serie di saggi, ora raccolti in un volume titolato Un pantheon in crisi Stagioni italiche fra Otto e Novecento (Lim, pp. 643, € 45,00), curati sapientemente da Jacopo Pellegrini. Il titolo rinvia al ben noto topos o «mito» della «morte dell’opera», che porta con sé almeno due aspetti: una specie di trauma consustanziale all’identità della cultura musicale italiana e un tema storiografico di stimolante complessità. In questo senso, benché rivolto in primis al ristretto pubblico dei musicologi/musicofili, il libro potrà/dovrà interessare anche chi si occupa di storia culturale e di antropologia storica.

Il percorso a ventinove tappe affrontato da Orselli va da Arrigo Boito a Luigi Dallapiccola e, seppur a volte scandagli il repertorio della lirica da camera, attraversa un panorama la cui dominante è chiaramente la morte o la crisi di un genere che più di altri ha marchiato a fuoco l’identità musicale italiana: l’opera lirica. Il «pantheon» cui allude Orselli è quello della «grande tradizione» operistica che si compie nella canonizzazione/istituzionalizzazione di Verdi subito dopo l’Unità d’Italia. Non dimentichiamo che, l’indomani dell’annessione di Roma al neonato Regno, il più celebre compositore italiano aveva deciso di chiudere baracca e burattini, con l’Aida e la Messa da Requiem dedicata a Manzoni. L’esito trionfale si accompagnò all’ansia per il futuro: la «grande tradizione» diventò un oggetto in parte «inventato» (si pensi al mito del «belcanto») e tanto più celebrato in quanto percepito come un «oggetto perduto».

Come ha ben sottolineato Slavoj Žižek, «il paradosso da accettare pienamente è che quando un determinato momento storico è (fra)inteso come momento di perdita di qualche qualità, a un’attenta analisi appare chiaro che quella qualità perduta è emersa solo nel preciso istante della sua presunta perdita». Ecco allora da una parte il bisogno di continuare quella tradizione nella quale si identifica la «comunità immaginata» della nazione (Ponchielli, il verismo, Puccini), dall’altra l’ancora più forte bisogno di una «contronarrazione» (Boito, d’Annunzio, la Generazione dell’Ottanta) a cui non si riesce però a credere fino in fondo. Non a caso il viaggio di Orselli inizia col «sintomatico» fiasco del primo Mefistofele di Boito a Milano (1868) i cui effetti «traumatici», come quelli dell’altrettanto epocale fiasco del Tannhäuser di Wagner a Parigi nel 1861, danno l’avvio al difficile rapporto tra il modernismo e l’opera.

Alla Scala, il fiasco del Mefistofele fu seguito da quello di un altro scapigliato riformatore, Franco Faccio, il cui Amleto (su libretto di Boito) fu fischiato nel febbraio 1871. Il rinnovamento della tradizione operistica porta sempre con sé una furibonda «resistenza» culturale. Ma poi ci furono, oltre all’ultimo Verdi e a Puccini, la Parisina di Mascagni, la Francesca da Rimini di Zandonai, Le sette canzoni di Malipiero, e altro. Nell’esaminare il caso Boito e le sue conseguenze, Orselli mostra alcuni tratti peculiari della sua formazione postcrociana, molto ben ricostruita nella prefazione di Pellegrini, tutta volta a distinguere i «valori poetici assoluti» dal contesto culturale che li ha in parte determinati, ma che non riesce mai a spiegare fino in fondo (una prospettiva che in Italia più cerchi di buttarla fuori dalla porta più rientra dalla finestra). I «minori» – tanto frequentati dall’autore (sia ringraziato per questo) – rischiano però, così, di avere più una rilevanza culturale che artistica, mentre – per esempio – ascoltare Il giuoco del Barone di Valentino Bucchi o L’importanza di essere Franco di Mario Castelnuovo-Tedesco, dopo aver letto le pagine ad essi dedicate da Orselli, è innanzitutto una affascinante esperienza estetica ricca di conseguenze sul piano culturale: sviluppare la prima (in sede di programmazione artistica) e le seconde (in sede di ricerca musicologica) è il lascito più prezioso di questo irrinunciabile volume.