La si può esorcizzare in molti modi, come la si può collocare e distillare in altrettante maniere. In fondo la morte, come poche altre idee, è stata al centro della storia delle rappresentazioni. Nell’arco della esistenza di ciascuno se ne può fare esperienza spesso, eppure è sempre quella degli altri di cui possiamo discettare, seppure impropriamente da meri spettatori, nell’impossibilità di riferire la nostra personale che quando ci coglie verrà registrata da chi ci sta accanto.

Poesia, letteratura, filosofia, arte, religione, in tutti i campi dell’umano sapere la fine non è solo la nostra – che spesso è poca cosa se la si considera nel continuum in cui siamo immersi – ma anche quella della relazione tra chi sopravvive e chi se ne va. Aver avuto una buona vita, essere degni o indegni di lutto, sono tutte espressioni che nulla tolgono alla complessità dell’argomento in sé, misterioso e ingovernabile.

Del corpo che, una volta abbandonata la vicenda terrestre, diventa l’ingombro per chi poi dovrà occuparsene, scrive con acuminata ossessione Caitlin Doughty, scrittrice di origine hawaiane, in un libro tanto denso quanto ironico. Fumo negli occhi e altre avventure dal crematorio (Carbonio editore, pp. 251, euro 16,50, traduzione di Olimpia Ellero) è uno strano esperimento, a metà strada tra la cronaca, il manuale e il memoir, che restituisce quanto l’autrice – oggi poco più che trentenne – ha intrapreso all’età di 23 anni, assunta in una impresa funebre.

Laureata a Chicago in Storia medioevale e poi in Scienze mortuarie, Doughty nel 2011 ha fondato il collettivo The Order of the Good Death ma ha interrogato la morte fin da bambina, tra terrore e curiosità di scoprire il significato del perire.

Al principio era l’ansia per il congedo dai suoi cari, sua madre avrebbe potuto non rientrare a casa oppure sarebbe potuta spuntare insieme ai fari della macchina sul vialetto. Ogni sera la stessa angoscia. Sembra un fatto banale ma l’allarme infantile diviene ben presto una cosiddetta «morbosità funzionale» che le consente nell’età adulta di occuparsi di tutti gli elementi affini alla mortalità: le spoglie, i rituali, il cordoglio. Individuarli, dedurli e infine accoglierli in una sontuosa accettazione, non solo culturale ma simbolica, spirituale. La bambina e la donna si incontrano nelle domande illecite, come quelle che perimetrano il senso di un evento a cui non può essere data un’unica risposta.

È qui che la scrittrice ha deciso di trovare una misura il più possibile materiale, confrontandosi con quel grande smarrimento che è il corpo senza più vita. Quando arriva alla Westwind Cremation & Burial di Oakland (nome di fantasia che tuttavia corrisponde a una precisa impresa famigliare di pompe funebri), Caitlin è spaventata e immagina di non essere all’altezza della prova che le si richiede.

Un’addetta alla cremazione non dovrà forse essere dotata di particolare maestria ma deve pur sempre maneggiare con rispettosa cura un involucro che ha avuto una storia precedente. Affetti e prodigi, insieme a un notevole carico di ben più prosaiche deiezioni, divengono il fondo tanatologico con cui questa dedita ragazza, poco più che liceale, si cimenta. Byron è il primo a essere rasato; per quarant’anni contabile, carattere puntiglioso, crollato sotto i fendenti di un cancro che non perdona.

Di lui, come degli altri, Doughty narra vicende precedenti, malasorti e brevi dispiaceri. Così Padma, arrivata alla cremazione dopo mesi di lungaggini burocratiche, nessuno a reclamare le lacrime sul suo corpo. Lenta è la litania dei cadaveri con cui si esercita Caitlin Doughty, come se quella suprema e ultima espropriazione non sia altro che un meticoloso e straniante accompagnamento a cui ci si aggrappa per rimanere nel mondo. E ammettere, infine, che la morte diventa un’arte che si impara solo se si è arsi dal fuoco insopprimibile della vita.