Come si passa nell’arco di un paio di stagioni dal suonar canzoni sui palchi capitolini del Pigneto a trasformarsi in icona generazionale e scalare le classifiche? Chiedetelo a Calcutta, il cantautore di Latina, che nelle interviste e spesso nei testi dei suoi pezzi sembra farsi allegramente scivolare addosso tutto. Lo odiano gli integralisti dell’underground che lo accusano di aver «sporcato» l’indie con motivetti facili da hit parade, lo adorano i fan che vedono nei suoi atteggiamenti curiosi – appendere i dischi d’oro nel cesso, farsi fotografare in mezzo alle pecore, un simbolo di purezza. Resta il mistero, per chi scrive, del successo per un pop – garbato va detto – ma con pochi picchi e tanta medietà. Si apprezzano le citazioni battistiane, meno certi giochini lessicali («Mi hai chiesto un orgasmo profondo, forse il più profondo del mondo, ma mi hai dato le spalle») che lasciano il tempo che trovano.