Nel suo esclusivo testo di poetica, un articolo del ’49 dal titolo Fra Cronaca e Arcadia, Silvio D’Arzo si smarca contemporaneamente dalle due dominanti secolari della prosa italiana: da un lato la Cronaca del verismo (tradotto o spesso rimpannucciato nel coevo Neorealismo) che punta sulla materia bruta e sconta una tara ideologica, dall’altro l’Arcadia della prosa d’arte, un genere non solo estetizzante ma evasivo e ricreativo in cui la maggioranza degli scrittori italiani si è arroccata e persino catafratta durante il regime fascista. Altri sono i riferimenti del giovane scrittore reggiano nella cui panoplia di eteronimi (il suo nome era Ezio Comparoni, figlio unico di padre ignoto e Rosalinda, madre dai mille mestieri) si nasconde un lettore di De Foe, di Stevenson, di Henry James, specialmente di Conrad per il tramite paradossale di un nostro prosatore d’arte, Emilio Cecchi, con il quale il ragazzo di Reggio, che con sfacciato pudore si voleva un «Ignoto del XX secolo», era in corrispondenza.

La sua ossessione è il Conrad di Lord Jim e perciò una narrativa che non attende o tanto meno pretende risposte da chi legge, ferma alla esemplare dignità di un autore virile, solitario, malinconico, laddove – scrive in una pagina tesissima – «la dolorosa simpatia per gli uomini, questo suo mai esausto interesse, questa commossa curiosità non dà mai origine a retorici sfoghi»: potrebbe essere tranquillamente anche un autoritratto di D’Arzo, mentre alla medesima altezza cronologica, il 1949, nella piena maturità di una vita breve e bruciante, ha già in cantiere i suoi capolavori poi usciti immediatamente postumi, l’oggi celeberrimo Casa d’altri e la Prefazione a ‘Nostro lunedì’, il romanzo mai scritto che avrebbe dovuto essere l’ultimo invaso di una produzione frenetica, quasi la summa di uno scrittore inconsciamente esistenzialista.

Costernato con brio
La leucemia che lo fulmina a soli trentadue anni e ne fa contemporaneamente un autore di testi sempre potenziali, gli infiniti inediti e rari che escono tuttora dalla Biblioteca «Panizzi» di Reggio Emilia dove sono custodite le sue carte donate a suo tempo all’amico Rodolfo Macchioni Jodi, colui che per primo ha garantito la memoria di D’Arzo e ha fondato la filologia di uno scrittore che, a parte qualche racconto e plaquette adolescenziale, ha visto pubblicato in vita sua un solo romanzo, la favola filosofica All’insegna del Buon Corsiero, del ’42.

L’ambientazione del romanzo, il cui brio incantevole di stucchi e di ciprie che esalano à la Fragonard è contraddetto da un senso di costernazione e di imminente tragedia, rinvia al Settecento, secolo prediletto che Ezio Comparoni ha conosciuto qualche anno prima da studente universitario seguendo a Bologna le lezioni di Roberto Longhi e i corsi di un grande italianista, Carlo Calcaterra, su Frugoni e Muratori come già attesta il racconto di formazione, e di precisa ambientazione bolognese, Essi pensano ad altro (a cura di Paolo Lagazzi, Garzanti 1976). Il Settecento è per proverbio il secolo dell’avventura e nel frattempo è quello cui D’Arzo guarda per liberare la sua inventiva più volatile e leggera, la stessa che di solito viene rubricata nel cosiddetto «romanzo d’avventura» ovvero, definizione ancora più ambigua, nella «letteratura per ragazzi»: gli appassionati darziani già ne conoscono l’esito principale, Penny Wirton e sua madre, il bellissimo racconto che Macchioni Jodi curò per Einaudi nel 1978.

Non è solo l’archetipo di Penny, ma un Bildungsroman di levità picaresca, il più recente inedito proveniente dal tesoro della «Panizzi», Gec dell’Avventura (Einaudi, «Letture», pp. XXXVI+170, € 18,50), curato in maniera esemplare per rigore filologico e perspicuità della introduzione da Alberto Sebastiani con un Epilogo al romanzo scritto per l’occasione da un darziano onorario quale Eraldo Affinati. Redatto in un frangente estremo fra il ’44 e il ‘45, subito dopo la diserzione del tenente Comparoni dall’esercito di Salò, spedito a Vallecchi per un parere che dovette risultare interlocutorio, il romanzo rimase inconcluso pure se – vedremo – non esattamente incompiuto, dando adito al racconto Bobby e per l’appunto a Penny Wirton che ne eredita il motivo dominante, ciò che si potrebbe definire la invenzione di un padre, ma più alla maniera di una partenogenesi che non di una lineare deduzione.

D’Arzo vi proietta la sua ossessione di orfano e figlio infamato di N.N., narrando del ragazzo Gec che a scuola reinventa la figura del padre defunto, umile sellaio, nella immagine marziale di un corazziere del Re. Il povero villaggio, la collina del camposanto, spiagge deserte e caliginose, una Inghilterra settecentesca di locande e tricorni, costituiscono la scena in cui gira a vuoto la fanciullezza di Gec: gli sono intorno sua madre, detta Anna-dei-Bambini, una levatrice che ha le arti evocative di una Sibilla, un maestro impacciato, il Supplente, una coetanea silenziosa e invano amata, La Man, e finalmente l’ombra irrequieta, implacabile, di suo padre. Tutto sembra dimorare in un presepe senza tempo quando due fatti sconvolgono la trama e mobilitano il ritmo narrativo del romanzo: un processo ad Anna-dei-Bambini (presunta millantatrice e strega) e la fuga di Gec incontro all’avventura vera e propria, favolosa e frenetica, che qui si snoda in una storia di filibustieri; e fra costoro proprio uno dei più ispidi, Nard il Gabbiere (personaggio di evidente eredità melvilliana), diviene mentore e padre putativo di Gec: quanto a questo, l’Epilogo scritto da Affinati, con empatia e sorvegliato mimetismo, ha la delicatezza di alludere senza forzature al potenziale nascosto nelle «avventure mancate e illusioni perdute» di Gec.

Tra comico e drammatico
Nota, al riguardo, Sebastiani: «Penny Wirton focalizza il ritorno, la redenzione, la rinascita, Gec dell’Avventura il viaggio, l’esperienza, la ricerca. L’elemento fantastico è il perturbante nella quotidianità, ma all’interno di una trama che coniuga comico e drammatico. In Gec è infatti introdotta l’azione romanzesca: D’Arzo tenta di superare ‘l’esilio’, di crescere come scrittore confrontandosi con una avventura scoperta e amata negli autori angloamericani per ragazzi». Lo conferma, nell’apparato critico, la presenza di due fra le tavole che, in vista della possibile pubblicazione da Vallecchi, lo scrittore commissionò all’artista modenese Gian Battista Cavani, suo collega al Liceo «Spallanzani» di Reggio, acquerelli di ottima fattura che alludono alla liquidità traslucida del cielo e del mare, come fossero il liquido amniotico dell’avventura, e richiamano la straordinaria leggerezza della scrittura di D’Arzo, il cui piglio è tangibile ad apertura di pagina: «Né, c’è del resto, vecchio Bucaniere, Gabbiere, Quartiermastro o che so io, che, perduta una gamba o la speranza, e abbandonata coffa e parrocchetto per vendere liquori dietro un banco, non sappia e non ridica questa storia. // In special modo dopo Mezzanotte».

A contarli bene si vede che sono tutti, ma proprio tutti, dei classicissimi esemplari di endecasillabo, che nella nostra tradizione è il metro più adatto al passo narrativo. Questo è il segno ulteriore, anzi è l’ennesima riprova che per Silvio D’Arzo la vocazione narrativa corrisponde a un mito di rinascita dove l’orfano si emancipa dalla propria condizione di escluso ritrovando la sua paternità nella genesi stessa della scrittura.