L’eclettismo è la zona rimossa dello sperimentalismo secolare, prima che un segno codificato esso è piuttosto il sintomo dell’avvicendarsi di poetiche e di parole d’ordine tra loro conflittuali. Di un singolare e problematico eclettismo, condotto ai limiti di una irresolubile antinomia, è piena testimonianza la mostra intitolata a Oreste Bogliardi e gli amici del Milione che la Casa Museo e il Centro Studi «Osvaldo Licini» ospitano fino al 7 gennaio (info: www.centrostudiosvaldolicini.it, tel. 3349276790) per l’attenta cura di Daniela Simoni e Franco Tagliapietra insieme con Stefano Bracalente e per il referto biografico Arianna Ghilardotti, firmatari di un catalogo (FastEdit, pp. 125, €  15.00) che è la più compiuta monografia su un pittore che ha attraversato buona parte del secolo XX oscillando, si direbbe per decadi contrapposte, tra un Novecento italiano più o meno rinverdito dal Realismo magico e un Anti-Novecento culminante nel novembre 1934 nella mostra pionieristica di pittura astratta, alla galleria Il Milione di Milano, dove Bogliardi espone con Gino Ghiringhelli e Mauro Reggiani.

È la mostra che, notoriamente, apre la stagione eroica dell’astrattismo italiano fungendo da trailer a quelle che nel ’35 Il Milione organizza nei modi di un fuoco di fila antiaccademico (il che vuol dire – a Milano e giusto nella galleria ubicata in faccia a Brera – avverso al patrocinio della ninfa egeria, Margherita Sarfatti) da Melotti a Soldati e Veronesi, da Lucio Fontana allo stesso Osvaldo Licini.

Peraltro in quel medesimo ’35 esce Kn di Carlo Belli (riproposto da Giometti&Antonello nel 2016) vale a dire il manifesto dell’astrattismo che, rigettando ogni ipoteca naturalista, scommette su un’arte gemella all’«idea musicale» (in questo Belli, roveretano, risale da Rosmini a Platone) e oltretutto su un’idea di classicità trascendentale, suprema sintesi di forma-colore, il cui immediato precedente viene dedotto dal Piero della Francesca di Roberto Longhi, che risale al ’27: dunque, come scrive Bracalente, è «un sogno anti-novecentista nella città più novecentista d’Italia». Per parte sua, Bogliardi aderisce alla mostra del ’34 con qualche olio su tela dal titolo neutro e persino scostante, Composizione (in mostra nell’interrato di Casa Licini), laddove un geometrismo non estraneo alla lezione cubista viene ricollocato in un plafond cromatico di sobria esattezza.

Nessuno sospetterebbe che il pittore sia lo stesso dei ritratti, paesaggi e nature morte anni venti ospitate a pochi metri, nelle sale del Centro Studi. Qui, specie a proposito dell’intenso Autoritratto (’23) o piuttosto del ritratto del bambino Armando (’27), si potrebbe richiamare un Novecento di colori freddi e smaltati come di tradizionali e solide volumetrie, e d’altronde Bogliardi, nato con il secolo a Portalbera, ha alle spalle un curriculo abbastanza convenzionale di allievo e poi di insegnante a Brera, con tanto di viaggio iniziatico a Parigi (1925: l’anno dell’Art Déco).

Ma quella che nel ’34 con la mostra al Milione sembrerebbe una autentica conversione con tanto di abiura del figurativo, in realtà è per lui soltanto un momentaneo détour perché Bogliardi via via decrementa il suo impegno in pittura (si dedica per lo più alla professione di architetto e di decoratore tra Milano e Rapallo, dove presto andrà a vivere) e, tra guerra e dopoguerra, torna a un figurativo di vaga ascendenza cézanniana (il bianco che diventa un colore, la scomposizione o se non altro il frazionamento dei volumi) ma, come attestano soprattutto i paesaggi esposti a Monte Vidon Corrado, la mano è oramai anchilosata, incerta, lo sguardo sfuocato e disorientato da un eclettismo che sembra tornare su sé stesso.

L’astrattismo di dieci anni avanti pare al momento inconcepibile, quasi il fatale contrappasso di un artista, scrive Tagliapietra, che ha sempre preferito «la linea dell’et-et piuttosto che quella radicale dell’aut-aut». E tuttavia anche se quella dell’astrattismo era sembrata una parentesi giovanile, un tributo generoso all’arte nuova, c’è da aggiungere che Bogliardi 1934 dopo tutto non sfigura vicino ai disegni di Fontana e Melotti: a parte è invece calcolabile il meraviglioso e rosso Scherzo 1933 di Licini (prestito di Villa Croce, casa di Maria Cernuschi Ghiringhelli) che oggi fa letteralmente sobbalzare il visitatore.

Va aggiunto che il dopoguerra di Bogliardi è non solo oberato di lavoro ma anche di lutti, di problemi familiari e di grane politiche (subisce un processo di epurazione per avere presieduto una corporazione fascista) cui si aggiungono i dissapori con colui che è stato nei decenni amico e fratello d’arte, quel Cristoforo De Amicis presente fra l’altro con un notevole Arlecchino (’39) di memoria picassiana che fa il paio, virando dal rosa al blu, con I pensatori (’44) dello stesso Bogliardi, senz’altro una delle sorprese della mostra. Il quale Bogliardi, giusto nei suoi ultimi tempi (morirà nel maggio del 1968), torna alla ambivalenza del suo oroscopo per cui, come scrive limpidamente Simoni, «astrazione e figurazione si alternano fino all’approdo, dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1966, a una rarefatta limpida astrazione geometrica».

Proprio nel ’66 è accaduto a quest’uomo che oramai si percepisce come un ex artista (in aggiunta un artista irresoluto e nella sostanza inespresso) di sentirsi richiedere alcune tele da ospitare, alla Biennale, nella mostra retrospettiva Aspetti del primo astrattismo italiano a cura di Nello Ponente, il cui cross country sulle colonne di Paese sera faceva allora non poco discutere. Ma c’è qualcosa di fatale e persino di premonitorio in quest’ultima, riparatoria, uscita di Oreste Bogliardi dove torna il radicale geometrismo 1934 pure se addolcito o meglio alleviato da una vibrazione più teneramente poetica (qui Daniela Simoni dice di «composizioni fondate sul principio di euritmia, alcune giocate su cromìe delicate»).

Sono sei dipinti a olio su tela che, privi di numerazione, recuperano tutti il primitivo titolo di Composizione. Ad essi, risalente all’inizio del 1968, va aggiunto il quadro forse più emblematico la cui postura, retrospettivamente, non può che essere testamentaria: è ancora una Composizione di piccolo formato ma stavolta ordita su un fondo di grigio glaciale mentre la attraversano linee perpendicolari e rigorose, alla Piet Mondrian, tra l’antracite e il nero a lutto. È un’ultima griffe d’autore che, uscendo finalmente dalle dinamiche dell’eclettismo, congiunge l’alfa e l’omega del suo percorso. L’ultima intervista è non a caso nel segno del rimpianto: «Dopo la Biennale di Venezia io tornai a casa molto turbato perché ero assolutamente convinto che la mia strada era quella che avevo intrapreso tanti anni prima e che poi mille ragioni mi hanno forzato a lasciare»