«La Cina sembra un paese molto più prospero che in passato. Ma molta gente è in crisi, e ci sono enormi diseguaglianze tra ricchi e poveri. I cambiamenti avvenuti nella società cinese hanno aumentato la pressione sulle persone. Che però non hanno alcuna possibilità di dare voce alla propria frustrazione. Una società che blocca qualsiasi mezzo d’espressione dei suoi cittadini è una società anomala. E la collera che scaturisce dal sentimento dell’ineguaglianza può solo provocare reazioni violente».

Così Jia Zhag Ke, il regista più amato in Europa delle nuove generazioni cinesi (Leone d’oro alla Mostra di Venezia con [/ACM_2]Still Life, 2006), raccontava all’ultimo festival di Cannes, dove il film ha vinto il premio per la sceneggiatura, A Touch of Sin, Il tocco del peccato che arriva nelle nostre sale grazie a Officine Ubu.

Omaggio, e non solo nel titolo, al grande maestro del cinema cinese King Hu, re del filone wuxia, e al suo Touch of Zen, ne «eredita» anche la tensione per una forma narrativa appassionante e aderente ai0 conflitti storico politici del presente e del passato. Touch of Sin è un film a episodi: quattro storie di vendetta proletaria ispirate a recenti fatti di cronaca accaduti in Cina, che la narrazione di Jia accorda con un senso musicalmente stridente al segno delle lacerazioni di un paese in cui la crescita del Pil è direttamente proporzionale a quella dello scontro sociale e dei tumulti.

Cosa è quel «tocco di peccato» disseminato nella macchina neocapitalista globale? Il respiro incessante del lavoro in un paesaggio mai inerte, in cui il corpo è acceso 24 ore su 24, in fabbrica o come strumento di piaceri, a coltivare la terra o a pulire le verdure. «Dove vuoi andare – dice un ragazzo all’amico che sogna la fuga nell’altrove – Il mondo è in crisi ovunque».

Nessuno sembra fermarsi mai nella «nuova» realtà di ricchezze e miserie, lusso sfrenato e sopportazione silente che asseconda l’ambizione di conquistare un giorno «anche io» qualcosa. Però ci sono limiti che nessun essere umano può sopportare, oltre i quali o si rivolta collettivamente o reagisce in solitudine. Ma in questa specie di moto continuo cosa significa – se ha ancora un senso – «rivoluzione»?

Il rapporto a distanza tra le storie e la Storia, è al centro del cinema di Jia dal primo film, Pickpocket (1997), al cui protagonista, il giovane ladro emarginato, questi personaggi somigliano: vivono infatti la stessa incapacità di «adeguarsi» al sistema sociale, che scivola nell’esasperazione. A differenza di lui, e degli altri però, i protagonisti di A Touch of Sin (coprodotto insieme a Takeshi Kitano) reagiscono, rispondono alle vessazioni con una violenza surreale, e ferocemente politica. È la lezione del buddismo «zen» (assimilata da King Hu ma anche da Tsui hark e da Kitano) come filosofia del combattimento, della prassi, della comunicazione individuale e collettiva. Insieme alle antiche tradizioni culturali e marziali (il teatro e la letteratura popolare, gli artisti di strada, il tempio di Shaolin…) che continuano saldamente nella loro funzione di «provocare» la giustizia.

La sfida dunque è alta, e semplice insieme: si tratta di iniettare la spettacolarità politica dell’immaginario nella realtà quotidiana per denudarne l’oppressione feroce. Prima storia: il capo del villaggio ha venduto la miniera a una società privata, lui, il padrone e il contabile si sono arricchiti un soldo agli abitanti che continuano a lavorare e acclamano il padrone come un dio. L’uomo vuole denunciarli, perciò tutti lo guardano male, finché non viene picchiato per tacere e poi pagato. Ma all’ennesima beffa scoppiano schizzi di sangue splatter e li fa fuori tutti. Seconda storia, il tizio silenzioso che attraversa le strade deserte, lavoratore migrante ha scoperto che uccidere per professione fa guadagnare meglio e con meno fatica. Nella terza storia una donna (Zhao Tao) aspetta che l’amante lasci la moglie, lui continua a temporeggiare, e intanto la moglie manda due tizi a picchiarla. La donna lavora in una sauna, e quando due clienti tentano di violentarla, non riesce più a subire, prende un coltello e ne ammazza uno. Quarta storia, un ragazzetto passa dalla fabbrica a lavorare in un locale notturno per uomini facoltosi, che sembra la versione erotica di The World, il parco di attrazioni a tema al centro del precedente film di Zhangke, fino a ammazzarsi stroncato dall’ansia del denaro.

Western, romanzo storico-popolar-criminale, opera tradizionale, A Touch of Sin declina il «wuxia» al presente: dal nord al sud della Cina, lo Shanxi, lo Hubei, il polo manifatturiero di Guagngdong, e lE megalopoli di Chongqing, i protagonisti scoppiano all’improvviso, bombe deflagranti di una miseria velata nel denaro, sintomi di un malessere diffuso in quell’attività senza tregua. Ci parlano dei pericoli nascosti nell’improvvisa prosperità e nelle trasformazioni traumatiche di campagne e città, tra cemento, polvere nera delle miniere, fabbriche squadrate che somigliano a scatole delle scarpe.

La geografia quotidiana di Jia non conosce retorica o sentimentalismi. Ci porta nei mercati, tra gli animali, veri o sognati che possono suicidarsi, o mimetizzarsi (come in un film di Bruce Lee) tatticamente nel filo dell’orizzonte. Fissa lo sguardo prolungato dell’uomo che osserva la bimba prima di sgozzarle l’amata papera. Si sposta nelle archeologie industriali, in cui la collera è sprezzo per la dignità che i ricchi ovunque siano – lo stesso regista si riserva il ruolo di un cliente del locale – esercitano. E la «sua» Cina racconta qui, in questi conflitti, il senso del capitalismo oggi, denominatore comune di un tempo in cui la ribellione può rimanere sola. O diventare, appunto, rivoluzione. Tutta da inventare.