Chissà se ad attirare il suo sguardo mentre si avvicinava alla scrivania ingombra di oggetti fu il lungo portapenne in lacca a forma di piroga o il piccolo coccodrillo di cuoio usato come fermacarte. O magari uno dei due grandi mappamondi disposti ai lati della sedia. Dello studio di Bateman’s, l’accogliente dimora nel Sussex dove Rudyard Kipling abiterà fino alla morte, Robert Cedric Sherriff ricorda soltanto che era foderato di libri e che la mattina di primavera in cui vi entrò aveva al centro una tinozza smaltata. L’uomo considerato all’epoca il più grande scrittore inglese vivente, l’unico che aveva vinto il Nobel, stava lavando i suoi cani. Sherriff lo descrive «esile» però «vigoroso», dotato della stessa «impaziente sveltezza» di un ragazzo «in cerca di avventure». Non sappiamo di cosa parlarono durante quel sabato passato insieme. Il giovane esordiente si racconta sopraffatto dall’emozione per l’invito: Kipling era il narratore che amava di più, teneva i suoi libri sul comodino, li aveva portati nello zaino durante la guerra. Era il 1929 e nel West End si susseguivano le repliche di Journey’s End, il dramma in tre atti dedicato da Sherriff alla vita di trincea. Lui era tornato dalla Francia nel 1917 con una ferita alla faccia; due anni prima, nella battaglia di Loos, era morto John, l’unico figlio di Kipling. Ci vedeva pochissimo, l’esercito lo aveva respinto più volte, il padre aveva insistito finché non era riuscito a farlo arruolare.
«Odiavo indossare il colletto rigido e la bombetta; odiavo viaggiare nei vagoni affollati; ancora di più odiavo la miserabile monotonia senza speranza di tutto questo» confesserà Sherriff in No Leading Lady (1968), la sua autobiografia. Nato nel 1896 da una famiglia della piccola borghesia a Hampton Wick, sobborgo sud di Londra, aveva frequentato fino a diciassette anni la Kingston Grammar School, dove si era distinto per il notevole talento sportivo, in particolare nel cricket e nel canottaggio. Proprio per finanziare il Kingston Rowing Club alla fine degli anni dieci comincerà a scrivere testi allestiti da compagnie amatoriali, fino allo straordinario, inatteso successo di Journey’s End, prodotto dalla Stage Society nel 1928 con Laurence Olivier nel ruolo principale. Mortificato nelle proprie ambizioni dalla necessità economica che gli rese impossibile accedere all’università e lo obbligò ad accettare un impiego nella stessa compagnia di assicurazioni in cui era occupato il padre, sembrerebbe che Sherriff abbia trovato nella guerra, prima arruolandosi e poi mettendola in scena, una sua doppia via d’uscita. Fu l’esperienza della guerra ad aprirgli la strada che lo avrebbe portato oltreoceano, verso il mondo spregiudicato e luccicante degli studios hollywoodiani dove lavorerà fino agli anni cinquanta, firmando tra i molti script le sceneggiature di L’uomo invisibile (1933), Le quattro piume (1939), Addio, Mr. Chips!, per cui nel 1940 ottenne una nomination agli Oscar. Non è difficile comprendere perché Bob, come tutti lo chiamavano, amasse le avventurose vicende di formazione del ragazzo Kim e di Mowgli; perfino quella del pur spocchioso Harvey Cheyne.
La sua insoddisfazione e i suoi sogni, le vittorie sportive e il triste impiego nella City appartengono anche al diciassettenne Dick, uno dei personaggi principali di Due settimane in settembre, il primo romanzo firmato da Sherriff, uscito dopo una serie di fiaschi teatrali nel 1932 e accolto da un enorme, di nuovo imprevedibile successo di pubblico e di critica. Fazi lo propone adesso per la prima volta in italiano («Le strade», traduzione di Silvia Castoldi, pp. 350, € 18,50), forse sull’abbrivio delle parole spese in suo favore nel 2020 sul Guardian da Kazuo Ishiguro, per cui la «bella dignità della vita di ogni giorno» è stata catturata «di rado» sulla pagina con «maggiore delicatezza». Dick ha come il suo autore una sorella più grande e un fratello più piccolo, un padre occupato da sempre nella stessa azienda e una madre casalinga. Ogni primo sabato di settembre la famiglia Stevens va in vacanza per quindici giorni a Bognor Regis, località balneare in Sussex non lontana dalla Selsey in cui gli Sherriff avevano acquistato una piccola casa e dove lo scrittore, morto nel 1975, ha voluto essere sepolto. La famiglia Stevens alloggia in una pensione, sempre la solita, che si chiama Seaview. Tutto rimane uguale, eppure tutto impercettibilmente muta, sotto la superficie immobile si allargano crepe e alitano spifferi: dentro Seaview, poiché la proprietaria sta invecchiando, come tra gli Stevens, perché Dick e Mary ormai sono cresciuti. Oltre alla «dignità» della vita quotidiana, questo il fascino autunnale del romanzo, si direbbe che Sherriff catturi con incantevole quanto chirurgica «delicatezza» la malinconia del tempo che scorre e delle speranze che appassiscono. Anche delle occasioni perdute.
«L’uomo in vacanza diventava l’uomo che avrebbe potuto essere, l’uomo che avrebbe potuto diventare se le cose fossero andate in maniera un po’ diversa. Tutti gli uomini sono uguali in vacanza: tutti liberi di fare castelli in aria senza preoccuparsi delle spese, e senza possedere competenze da architetto. Sogni fatti di una materia così impalpabile devono essere coltivati con venerazione e tenuti lontani dalla luce violenta della settimana seguente» riflette l’autore nella sequenza iniziale del romanzo, quasi indicando al lettore il significato vero da inseguire. Non sembra casuale che la prima metà del testo, quella narrativamente più riuscita, sia dedicata ai preparativi e al viaggio in treno, mentre la vacanza in senso proprio, con le sue differenti ripercussioni su ogni componente della famiglia, risulta compressa nella seconda. Waiting era il titolo scelto da Sherriff per Journey’s End prima che l’editore lo bocciasse; è l’attesa il tema centrale di entrambi i suoi libri più famosi.
Per quanto Due settimane in settembre abbia l’aspetto indubbio di un romanzo corale, costruito mediante il lineare concatenarsi di capitoli disposti in esatta sequenza cronologica, ma narrati ognuno secondo il non conforme fuoco prospettico dei diversi personaggi, appare altrettanto indiscutibile che il suo effettivo protagonista sia Dick. È la sua attesa di giovane maschio, il suo desiderio di una forma diversa da imprimere alla propria esistenza, la rivelazione da cui sono squarciati i suoi pensieri sul destino e il coraggio cui si dispone per realizzarla che Sherriff ama in primo luogo raccontare. Di fronte ai sogni di Dick sul futuro, come ai chiastici rimpianti sul passato del signor Stevens, sbiadiscono i personaggi femminili. La signora Stevens e Mary sono figurine ingenue, quasi patetiche se non ridicole. Del resto a Sherriff le donne interessano poco: il suo mondo espressivo è uno spazio per giovani maschi alla ricerca di un loro eroico modello e in attesa del minuto che segnerà l’ingresso di ciascuno nell’esistenza, eppure inchiodati sul limite di quel passaggio, ancora sulla soglia a contare il tempo. Come in Journey’s End, anche in Due settimane in settembre l’autore ha un tocco strepitoso nel creare questo spazio servendosi di strumenti consumati dall’uso quotidiano.
«Volevo scrivere di persone semplici, comuni, che facevano cose normali, eppure brancolavo alla ricerca di espressioni ridondanti e parole pompose. Era evidente che la via migliore fosse scrivere la storia di quelle persone con le stesse parole semplici che avrebbero usato loro per descrivere i propri sentimenti e le proprie avventure». In realtà il suo stile piano ma elastico, il linguaggio cristallino e tuttavia attraversato da continue increspature, il ritmo mutevole benché in apparenza ripetitivo, il gusto raffinato per le metafore tradiscono una scrittura «semplice» solo in superficie. Né troppo «comuni» sono i «sentimenti» che si agitano nel cuore del suo protagonista. «Dopotutto che cosa mai c’è da guadagnare nel guardarsi continuamente alle spalle e a prendercela con noi stessi se le nostre vite non sono state proprio quelle che avremmo desiderato?» riflette il più noto personaggio di Ishiguro. È una domanda che a nessuno dei giovani maschi di Sherriff sarà mai concesso di rivolgersi.