Abbiamo lasciato la stagione lirica del Teatro alla Scala a luglio con una nuova produzione di Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi per la regia di Damiano Michieletto e la riprendiamo con una ripresa de La scala di seta di Gioacchino Rossini dello stesso Michieletto andata in scena per la prima volta al Rossini Opera Festival nel 2009. Poche note dell’ouverture vengono eseguite prima che il sipario si apra su una curiosa architettura di scena. Sotto suggestione di Dogville di Lars von Trier, l’apparato scenografico si compone di una planimetria in scala 1:1 dell’ipotetico appartamento della protagonista Giulia, situato a Milano, in via Filodrammatici.

Il disegno distributivo degli interni, con tanto di schemi d’arredo per ciascuna stanza, giace sul piano del palco, riflesso da un grande specchio inclinato che taglia la torre scenica e garantisce la visione dall’alto: il pensiero non può non andare alla celeberrima scenografia ideata da Josef Svoboda per La traviata dello Sferisterio di Macerata nel 1992. Un gruppo di tecnici guidati da un arredatore introduce mobili veri e propri, disponendoli secondo le indicazioni del disegno planimetrico. L’estetica è autoriflessiva e narcisistica: fare teatro non è che progettare uno spettacolo e dunque una intrinseca celebrazione dell’idea stessa di regia. Nulla pare lasciato al caso nei movimenti: spinti dall’horror vacui di una vicenda stereotipa e inconsistente, i personaggi passano da una stanza all’altra, mimano di aprire porte e finestre inesistenti, di scendere e salire l’eponima scala, in un puzzle dinamico che sembra assecondare il ritmo esuberante della musica rossiniana. L’esecuzione musicale è dignitosa, ma priva di vere e proprie punte di eccellenza.

La maggiore responsabilità è imputabile alla concertazione di Christophe Rousset, rispettosa della partitura, ma poco fluida e lontana dal perseguimento di una vera coesione tra organico strumentale e vocale: la scelta di tempi spesso rallentati appare in netto contrasto con la vivacità dell’azione scenica e la vitalità dell’interpretazione, affidata ai giovani cantati dell’Accademia del Teatro alla Scala. Efficace la prova del soprano Ludmilla Bauerfeldt (Giulia), scenicamente convincente e padrona di una tecnica vocale sicura che le consente di risolvere i passaggi di più intenso lirismo e di affrontare con grinta la coloratura, nonostante un registro medio-grave assai opaco. Sfogatissimo in acuto ma piccolo di volume il Dorvil di Maxim Mironov. Il pivot della produzione è il professionista consumato Paolo Bordogna, che riprende il ruolo pesarese del 2009: dichiaratamente ispirato a un noto personaggio comico tv, un servitore filippino assai trash ma irresistibile, non solo risolve la parte di Germano con grande carisma interpretativo, ma riesce a modulare la voce «all’orientale» senza snaturare minimamente la scrittura rossiniana, con qualche difficoltà nel registro grave. Completano debolmente il cast Valeria Tornatore (Lucilla), Mikheil Kiria (Blansac) e Jaeyoon Jung (Dormont).