Il Primo maggio del 1995, nel cuore di Parigi, alcuni skinheads neonazisti che partecipavano all’abituale manifestazione del Front National che sfilava, allora come oggi, di fronte alla piccola statua dedicata a Giovanna d’Arco per rinnovare «il voto» della Francia alla pulzella d’Orléans, aggredirono e uccisero un immigrato marocchino gettandolo nella Senna. Vent’anni più tardi, nello stesso luogo, la nuova leader dell’estrema destra, Marine Le Pen, accantonato l’anziano e impresentabile genitore, Jean Marie che del Front National era stato il fondatore, e ormai pressoché del tutto sdoganata nel dibattito pubblico grazie alla lunga predicazione identitaria e soft-razzista impartita al paese da Sarkozy, ha celebrato di fronte ad una folla di sostenitori i sondaggi che la vedono al momento in testa sui suoi rivali di centrodestra come di centrosinistra per le presidenziali del 2017.

Di skin se ne vedono sempre meno, ma la minaccia si è fatta ancora più grande. Al punto che un film che sottolinea volutamente come questi due frammenti della recente storia francese – la violenza delle teste rasate e il fantasma di una Le Pen all’Eliseo – siano in realtà tratti dal medesimo album di famiglia, ha suscitato polemiche e allarme già prima del suo arrivo nelle sale. Scritto e diretto da Patrick Asté, in arte Diastème, musicista, scrittore, regista teatrale alla sua seconda prova cinematografica dopo Le Bruit des gens autour, Un Français, uscito il 10 giugno, racconta infatti attraverso le vicende di Marco, giovane skin razzista della banlieue nord della capitale, interpretato da Alban Lenoir, già tra i protagonisti di Les Gamins di Anthony Marciano, e della sua banda di picchiatori, oltre trent’anni di vita dell’estrema destra francese, ripercorrendo per molti versi la strada che dalle aggressioni razziste conduce fino alle stanze del potere.

Una scelta controcorrente in un clima che si contraddistingue ormai da tempo per un’aperta banalizzazione, almeno in gran parte del circuito dell’informazione radiotelevisiva, dei temi evocati da Marine Le Pen, ospite fissa di radio e tv, e dal superamento della stessa etichetta di «estrema destra» a proposito del suo partito. «Intendo ricordare qualcosa che la stampa sembra aver dimenticato – ha sottolineato Diastème presentando il suo film -, vale a dire che il Front National ha le mani sporche di sangue. È stato creato da dei nazisti francesi, non si può trattarlo come un partito qualunque, non si può occultare questa dimensione storica delle sue origini. Al punto che ancora oggi, numerosi collaboratori di Marine Le Pen provengono dai gruppi dell’estrema destra violenta di qualche anno fa».

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In realtà, per evitare di essere coinvolti in polemiche scivolose, gli esponenti frontisti si sono ben guardati dal fare alcun commento. Tutto il contrario della linea adottata da siti, blog e figure della destra radicale estranei al Front National: Alain Soral, l’intellettuale antisemita nuovo punto di riferimento dell’ultradestra che se l’è presa con «la stigmatizzazione del proletario patriota bianco»; il sito Fdesouche («veramente francese»), leader del net nazionalista, che ha messo le mani avanti sulla possibile «strumentalizzazione di un fenomeno giovanile»; l’ex deputato europeo del Fn, che aveva dato vita a metà degli anni Novanta alla scissione guidata dall’ex numero due di Le Pen, Bruno Mégret, Jean-Yves Le Gallou, che ha parlato addirittura di «un film bobo (radical chic) che insulta la nazione e i francesi»; infine, Serge Ayoub, noto come Batskin, già leader degli skin neonazisti parigini, attivi anche nella Kop di Boulogne del Parco dei principi – facevano riferimento a questo ambiente i responsabili della morte di Clément Méric, il giovane antifascista ucciso a calci e pugni a Parigi il 5 giugno del 2013 – che ha postato accanto ad un’immagine che riproduceva la locandina del film, una rapa.

In ogni caso, fin da aprile, quando il trailer di Un Français che mostrava tra l’altro l’aggressione degli skin ad un nero, ha cominciato a circolare, rete e social network si sono riempiti di commenti aggressivi e minacce. Al punto che, almeno stando alle dichiarazioni rilasciate dal regista e dalla casa produttrice, la Mars Production, il centinaio di sale dove la pellicola sarebbe dovuta essere proiettata, si sono ridotte a 65 e molte della anteprime annunciate, specie in provincia, sono state annullate per il timore di rappresaglie violente da parte dell’estrema destra. Anche se c’è chi ha fatto osservare che il rischio di violenze sia in realtà minimo, mentre l’enfasi posta sulle minacce ricevute ha alimentato fin qui una corposa campagna promozionale.

Ciò non toglie che Un Français sia in ogni caso un film importante, anche se non sempre stilisticamente ineccepibile. Volutamente sgradevole e urticante per la serie di atti di violenza gratuita che illustra nella sua prima parte, rallenta di ritmo e di aggressività mano a mano che alcuni dei protagonisti che compongono la consorteria razzista riunita intorno a Marco, cominciano ad abbandonare le risse di strada: alcuni perché costretti dopo essere finiti in galera o perché inebetiti fino alla morte dall’alcol, altri perché stufi della violenza, la scelta finale del protagonista, altri ancora perché decisi a continuare altrimenti la propria battaglia in difesa dei «veri francesi», sotto le insegne del Front National.

Pur essendo il primo vero film francese dedicato al fenomeno degli skin-nazi, o boneheads, che arriva però a molti anni di distanza da opere ormai note come il britannico This is England, l’australiano Romper Stomper o lo statunitense American History X, Un Français guarda perciò ad un orizzonte più largo, nel tentativo di restituirci un’immagine dell’intero albero di famiglia dell’estrema destra d’oltralpe, seguendo i protagonisti dal mondo skin di un tempo fino agli ambienti, altrettanto radicali, della Manif pour tous di oggi.

Dalla discesa a precipizio nella violenza e nel furore di una banda di «ribelli bianchi» che nella Francia della seconda metà degli anni Ottanta ridefiniscono la loro identità di orfani di un mondo operaio perduto grazie alla pantomima degli eroi working class proposta dalla sottocultura skinhead d’importazione britannica, in quella fase oi music e neonazismo spicciolo, si passa così via via ad una sorta di genealogia del fascismo francese contemporaneo, fino a farci intravedere, oltre alle minacciose sagome ossute in bomber mimetico, il sorriso mesto e sinistramente seduttivo di Mme Le Pen: non sempre il diavolo indossa le Dr Martens.