Il lussuoso hotel saudita dove da due giorni le opposizioni siriane sono riunite è specchio del campo di battaglia. Le dissimulate spaccature degli ultimi anni hanno portato ad un risultato che sa di incoerenza: sì al negoziato con Assad ma no alla partecipazione dell’attuale governo al futuro della Siria.

Non era cominciata bene, con i kurdi siriani di Ypg e Ypj che organizzavano un meeting alternativo a quello di Riyadh perché non invitati e gli islamisti di Ahrar al-Sham (alleati con al Nusra, braccio siriano di al Qaeda) accolti con tutti gli onori. Ma ieri a rompere è stato proprio il gruppo salafita che ha ritirato la propria delegazione dalla conferenza sponsorizzata da re Salman come protesta per la presenza di milizie considerate troppo morbide con il presidente Assad.

A monte il tentativo di alcuni gruppi di opposizione di tenere conto degli attuali equilibri militari e della controffensiva del governo che, sostenuto dall’operazione aerea russa, sta riassumento il controllo di comunità nel nord ovest e nel centro, a partire da Homs e la periferia di Aleppo. Eppure è questa la precondizione uscita dalla due-giorni saudita: Assad e il suo establishment politico dovranno lasciare all’inizio del periodo di transizione. Chi è rimasto al tavolo è giunto quindi al successivo risultato, la creazione di un team che prenda parte al negoziato: 25 delegati (6 della Coalizione Nazionale, 6 di fazioni esterne, 5 dal Comitato di Coordinamento basato a Damasco e 8 figure indipendenti).

«Ci sono rappresentanti di tutte le fazioni, politiche e militari – ha commentato Monzer Akbik, membro della Coalizione – Dovremo raggiungere un accordo di cessate il fuoco e questo richiede che le fazioni armate ne siano parte». Visione comune anche sul futuro del paese: «Un meccanismo democratico attraverso un regime pluralistico che rappresenti tutti i settori del popolo siriano», si legge nel comunicato, che includa le donne, non discrimini su basi religiose o etniche e preservi le istituzioni statali.

Ma restano le contraddizioni: il meeting si è chiuso con un appello all’Onu perché interceda presso Damasco e lo convinca a «sospendere la pena di morte contro i condannati per opposizione, rilasciare i prigionieri, sospendere gli assedi e permettere il passaggio di convogli umanitari nelle zone assediate».

Un governo senza legittimità o un governo con cui discutere: debolezze di vedute a cui si sono aggiunte le interferenze esterne, che sulla Siria non mancano mai, e lo scontro a distanza tra Arabia saudita e Iran. Il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, ha ripetuto ieri che le due sole opzioni a disposizione di Assad sono andarsene attraverso il negoziato o essere rimosso con la forza, mentre Teheran screditava il meeting denunciando alla stampa la presunta presenza di membri dell’Isis.

Più ottimista, come sempre, il segretario di Stato Usa Kerry che da Parigi ha parlato di riunione «molto costruttiva»: «Tutti si muovono nella direzione che vogliono per giungere rapidamente ad un processo politico sotto gli auspici dell’Onu». Il tripudio della diplomazia in vista dell’incontro di oggi con Russia e Onu per discutere degli sviluppi siriani, in un periodo in cui la tensione tra avversari-alleati è alle stelle: jet che precipitano, minacce di uso del nucleare, occulto scontro tra Mosca e Nato. Ma Kerry è tanto ottimista da annunciare la possibilità di un dialogo anticipato, con gli stessi invitati di Vienna, il 18 dicembre a New York.

Sullo sfondo resta lo Stato Islamico, che controlla oggi un terzo del paese. Ieri il Pentagono ha annunciato l’uccisione di tre leader dell’Isis in una serie di raid. Tra loro il “ministro” delle finanze del gruppo, Abu Salah, considerato tra i più carismatici leader nonché tesoriere del “califfato”. Morti anche i responsabili delle attività di estorsione e del trasferimento di armi e uomini sul territorio.