«Il risultato del voto per il parlamento bavarese va moltiplicato per tre, e più o meno si ottiene quello che prendiamo a livello federale»: i calcoli di Klaus Ernst sono questi. E dunque anche per la Linke, che quasi sicuramente non entrerà nel Landtag di Monaco, il test di oggi è comunque importante per capire il proprio stato di salute. Già segretario del partito (2010-2012), il 59enne Ernst è il capolista della Linke in Baviera alle elezioni per il Bundestag del 22 settembre, ed è una delle figure più rappresentative della corrente che fa riferimento a Oskar Lafontaine.

Il vostro slogan è «100% sociale»: è un messaggio che sta arrivando alle persone che volete rappresentare?

Io penso di sì: la mia impressione è che fra i ceti popolari risultiamo i più credibili proprio sui temi sociali: migliori condizioni di lavoro, lotta al precariato, salario minimo per legge… Chi ci vota lo fa perché diciamo queste cose. E anche perché la Spd ha un problema con il proprio candidato cancelliere: Peer Steinbrück è stato tra gli artefici della cosiddetta «Agenda 2010» del governo di Gerhard Schröder, cioè della deregolamentazione del mercato del lavoro. E non ha mai preso le distanze da quelle scelte. Ora dice: “Erano giuste, ma hanno avuto conseguenze negative”. Eh no, non funziona così!

Non cambia nulla, secondo lei, la presenza nella squadra di Steinbrück del potenziale ministro del lavoro Klaus Wiesehügel, che da sindacalista ha combattuto le «riforme» di Schröder?

Anche nel 1998, quando la Spd andò al governo, c’era un sindacalista nell’esecutivo, Walter Riester della Ig-Metall. Fu una catastrofe: il sindacato nel suo complesso non si oppose allo smantellamento dello stato sociale. In ogni caso, è cosa nota che Steinbrück e Wiesehügel non sono d’accordo sulle pensioni: il candidato cancelliere vuole mantenere l’innalzamento a 67 anni, il suo potenziale ministro no. A mio giudizio, Wiesehügel è solo uno specchietto per le allodole.

La Linke è ancora molto debole all’ovest, anzi: stando ai risultati delle elezioni regionali degli ultimi tre anni e agli attuali sondaggi, è più debole di prima. Come mai?

Siamo in difficoltà per tre ragioni. Molte persone nutrono grandi riserve verso di noi perché vedono l’altra metà del nostro partito, quella orientale, come l’erede della Sed, il partito comunista della Germania est. In secondo luogo, siamo bistrattati dai media. Infine, negli ultimi tre anni ci siamo indeboliti con continui litigi interni: un partito che si occupa di se stesso e non della realtà che lo circonda diventa inevitabilmente poco interessante.

I due nuovi segretari, Bernd Riexinger e Katja Kipping, stanno migliorando la situazione?

Sì. Adesso le acque si sono calmate e il partito ha smesso di guardarsi l’ombelico. Ma perché la situazione resti tale, è decisivo ciò che accadrà dopo il voto: le due principali correnti (i pragmatici dell’est e i «lafontainiani» dell’ovest, ndr) dovranno avere pari dignità nel gruppo parlamentare.

Generalmente si dice che le difficoltà della Linke nascono anche dalla sua doppia natura: è un grande partito popolare (volkspartei) nei Länder dell’est, dove raccoglie anche il 30% ed è praticamente interclassista, mentre all’ovest è una piccola forza più combattiva e ideologizzata. Condivide quest’analisi?

Non so… Io ho problemi ad accettare il concetto di volkspartei. Che cosa significa? Senza un’analisi della società, senza capire quali interessi si difendono, personalmente non so che farmene di un partito “popolare”, che rappresenta genericamente la collettività. Penso che un partito di sinistra abbia senso solo se è la forza che tutela lavoratori dipendenti, pensionati, piccoli artigiani, artisti politicamente impegnati, intellettuali critici, ma non il “popolo” considerato come un tutto indifferenziato.

La Linke è l’unica formazione che non si presenta con una persona candidata cancelliere – o due, come fanno i Verdi. C’è un team di otto membri, del quale fa parte anche lei. Non è un fattore di debolezza, in campagna elettorale?

No, non credo. Penso anzi che arricchisca la nostra offerta. Detto ciò, va riconosciuto che de facto anche noi abbiamo due candidati che sono le figure-guida, e cioè Gregor Gysi e Sahra Wagenknecht.

Cosa risponde a quegli elettori, soprattutto dell’ovest, che dicono: non voto la Linke perché tanto non andrà mai al governo?

Che anche dall’opposizione si possono ottenere dei risultati. Lo si vede chiaramente anche in questa campagna elettorale: quasi tutti i partiti hanno assunto delle posizioni che in precedenza difendevamo solo noi, come il salario minimo per legge. E poi, devo aggiungere: non siamo noi a volere restare all’opposizione. Se un’alternativa di sinistra in questo Paese non si realizza, la colpa è della Spd che non vuole allearsi con noi, nonostante sappia benissimo che soltanto con i Verdi non arriva alla maggioranza. Senza di noi, i socialdemocratici non potranno mai più eleggere cancelliere uno di loro

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La direttrice del quotidiano progressista die taz, Ines Pohl, sostiene che fra i tre partiti di sinistra ci siano differenze ideologiche tali da rendere impossibile una coalizione…

Pohl si sbaglia. Le differenze ci sono, certo, ma non impediscono affatto un’azione comune. Conta la volontà politica, non altro.

Guardando oltre il 22 settembre: se la politica del governo tedesco sulla crisi non dovesse cambiare, le elezioni europee dell’anno prossimo potrebbero essere un’occasione per riprovarci. Avete già in mente una strategia? Un candidato comune a presidente della commissione, come sembra vogliano fare i socialisti?

Noi della Linke siamo all’interno del Partito della Sinistra europea (Se), in cui c’è anche la greca Syriza, con la quale abbiamo grande sintonia. Se avremo un candidato comune, in questo momento, non sono in grado di dirlo: lo decideremo insieme agli altri.