Alexandros Avranas entra in una casa greca nel giorno dell’undicesimo compleanno di una bella bambina tutta di bianco vestita. Intorno alla torta, solo la famiglia: tre generazioni di donne e un uomo di mezza età. L’uomo, che è quanto di più opaco e laido lo stereotipo di un piccolo borghese possa dare, ha, in più del fisico repellente, un sorriso da infame stampato sulla faccia, ghigno che diventa semplicemente insopportabile nel momento in cui stringe a sé le sue candide fanciulline. Tra di loro, la festeggiata si suicida gettandosi nel vuoto. La polizia indaga, i servizi sociali interrogano, la scuola si inquieta. Lo spettatore, se non ha già preso la via dell’uscita, non ha bisogno di arrivare alla metà inoltrata del film, laddove viene svelato l’orrendo segreto di Pulcinella, per capire con chi e con che cosa ha che fare: un film abietto.
Cos’è un film abietto? Non è un film violento. Non è un film scabroso. Si può fare un film sul male che non sia disgustoso. Ma nessun film cinico è mai stato un buon film e in questo senso Miss Violence, Leone d’argento e coppa Volpi per il miglior attore a Themis Panou, all’ultima Mostra di Venezia, non ha rivali.
Ad Alexandros Avranas piace accostarsi a Pier Paolo Pasolini e a Michael Haneke. Ora, non esistono mostri sacri, né maestri del cinema, e ognuno è libero di pensarsi come crede, ma il suo film non ha nulla a che vedere né con l’uno né con l’altro. Certo, in Salò, i repubblichini festeggiano il loro folle progetto scambiandosi le figlie. Ma persino in quello che è il più oscuro e pessimista dei film del poeta, non manca l’opposizione tra l’incapacità di godere dei fascisti e qualcosa che alla loro repressione sessuale resiste: l’inestinguibile potenza della sensualità proletaria, alla cui altezza il regista schiera la propria macchina da presa.
Quanto ad Haneke, persino il più ambiguo dei suoi film sposa la voce di uno dei personaggi, poco importa allora che questi siano più o meno meschini. Mentre Alexandros Avranas, come un osservatore distaccato, plana sui suoi miserabili omuncoli guardandoli con disprezzo. Il suo film non è migliore di questo suo disprezzo.
A qualcuno, Miss Violence è sembrato una grande metafora della crisi in Grecia, del capitale finanziario. Vale a dire di quasi tutto. Vale a dire di quasi nulla. Anche in questo caso, la distanza con Pasolini è evidente. Salò non è la vaga metafora del fascismo. Ma una precisa riflessione sui tratti specifici di quella farsa tragica con cui il ventennio si è concluso. E così per Haneke, il più surreale dei suoi film non è mai la metafora di qualcos’altro ma sempre la rappresentazione specifica di un soggetto.
Miss Violence non è una metafora della crisi. Ma è un prodotto determinato dalla situazione attuale. Non a caso, il soggetto specifico del film è proprio la quella vaghezza che in superficie sembra sciatteria intellettuale mentre è un nucleo ideologico. Il protagonista, lo abbiamo detto, è un piccolo borghese che prende il sussidio sociale. Ecco il parassita! Il ragionamento è noto: davanti ad una crisi economica che si somma ad una crisi sociale, che si somma ad una crisi politica, i problemi sembrano inestricabili. Ma se tutto il male si concentra su una figura, allora tutto va bene. Basta eliminarla e tutto torna come prima. Sogni d’oro, bellezze.