È un Matteo Renzi insolitamente pacifico quello che si rivolge alla Direzione Pd in una sorta di riunione lampo. Del medesimo rovesciamento dell’abituale strategia comunicativa ruggente aveva già dato prova domenica sera, nell’intervista con Fabio Fazio. Alla minoranza offre l’anticipazione del congresso. La fase congressuale partirà appena chiuse le urne referendarie e il premier lascia agli sfidanti la scelta delle armi e del terreno: «Possiamo farlo a tesi o in qualsiasi altro modo. Può durare 3 mesi o sei o un anno».

In realtà è una concessione vantaggiosa per lo stesso premier e in parte obbligata. Renzi non può e non vuole arrivare alla prova del referendum ai ferri corti con la minoranza: anticipare di un anno le assise non è un prezzo troppo alto. Inoltre, anche se ufficialmente non c’è nessun dubbio sulla decisione di portare la legislatura a scadenza naturale, l’eventualità di votare con un anno di anticipo, nel 2017, resta in campo e non si può arrivare alle urne senza il congresso alle spalle.

Il capo parla molto di referendum, ovvio, e squaderna il piano di battaglia in tre fasi, ma senza personalizzare troppo e senza accusare i paladini del No di essere nemici del genere umano o almeno di quello che vive nella penisola. La prima fase dovrebbe andare dal 20 maggio al 15 luglio, con mobilitazione straordinaria del partito tutto per raccogliere le firme e con l’occasione magnificare al colto e all’inclita la riforma. La seconda fase, fino al 10 settembre, comporta una specie di propaganda balneare a tempo pieno sulle spiagge: «Mi piace l’idea della mobilitazione costante». L’ultima fase sarà la campagna congressuale vera e propria e lì «sarà interessante dare il messaggio su toni più seri». Massimo impegno ma neppure una stoccatina lieve lieve contro i nemici esterni e soprattutto interni. Per le elezioni amministrative come per il referendum serve «il coraggio di non chiuderci nelle nostre diatribe interne».

Con la magistratura, poi, è tutta una corrispondenza di amorosi sensi: «Non entriamo nelle polemiche, auguriamo buon lavoro ai magistrati». Persino sulla «questione morale», con amministrative annesse, il premier è straordinariamente pacato: «Non chiedo una moratoria delle polemiche ma non dobbiamo vergognarci di ciò che abbiamo fatto. I problemi sul territorio sono meno di quello che i media raccontano, più di quelli che dovrebbero esserci». La polemica con il Movimento 5 Stelle è d’obbligo, ma decisamente garbata: «Sarebbe bello se anche loro preferissero la fatica della democrazia alla facilità della dinastia».

La stessa nomina di Carlo Calenda al ministero dello Sviluppo, annunciata a sorpresa direttamente nell’intervista tv con Fazio, è implicitamente un gesto di conciliazione. Renzi vuole quello che è sempre stato il “suo” uomo per molte ragioni interne, ma è anche l’occasione per ricucire lo strappo con l’Europa nominando al suo posto a Bruxelles, come da prassi, un diplomatico.

A cosa si debba il mutamento di toni è tutto sommato chiaro. Renzi deve affrontare le amministrative prima e il referendum poi riducendo al minimo i conflitti sia nel partito che nel Paese, e la nomina del fidatissimo Calenda su uno dei fronti più incandescenti serve anche a questo. Inoltre sa che le elezioni di giugno sono a forte rischio di batosta, e non è mai saggio mostrarsi troppo arroganti alla vigilia di una possibile sconfitta. Ma è anche probabile che il calo di popolarità registrato dai sondaggi abbia reso il ragazzo di Rignano sensibile al rischio di ritrovarsi nella stessa scomoda posizione in cui si è dibattuto Silvio Berlusconi per due decenni: quella di chi calamita ostilità personali a valanga.

Il Renzi di ieri era diverso dal solito. La ministra delle riforme Maria Elena Boschi proprio no. Sarà che il capo non la aveva avvertita, oppure che contro la propria natura non si può fare molto, sta di fatto che quando Gianni Cuperlo le chiede ragione di quell’infelice equiparazione tra la sinistra che vota no al referendum costituzionale e Casa Pound, si gira come un serpente a sonagli e morde: «Io ho sentito equiparare più volte chi vota sì a Denis Verdini. Dire che chi vota no vota come Casapound è un’osservazione di fatto reale nella sua banalità».

La numero due del governo non rovina l’offensiva di pace del premier. Però ci va vicina.