Una mostra è fatta soprattutto di oggetti materiali e immateriali, ma la storia delle mostre, una storia ancora non scritta, comunemente associata a memorie e dunque soggetta presto ad essere dimenticata, è anche una storia di scoperte inattese. Ancor più sorprendenti quando queste sono legate a persone protagoniste del proprio tempo, che l’incedere degli anni non ha scalfito né nei ricordi né nelle presenze che hanno attraversato e condito la loro vita. Questo per dire che nella sistemazione di elenchi lettere materiali nomi e cognomi che avevano lavorato con Paolo Grassi all’improvviso l’apparizione del nome di Virgilio Tosi ha rimandato a memorie cinematografiche e non come i documenti dicevano alla fondazione del Piccolo Teatro di Milano e all’amicizia con Paolo Grassi. Nessuno sospettava e lui ne ha riso una volta interpellato che fosse ancora vivo. Raggiunto in due tempi a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno, Tosi si è lasciato andare ad una lunga conversazione su quei lontani tempi terribili in cui un gruppo di giovani gettava le basi di un rinnovamento nazionale che sarebbe dovuto passare anche per lo spettacolo e per il teatro. La conversazione poi si è allargata anche alla sua attività di didatta, critico e cineasta, alle sue innumerevoli e straordinarie amicizie. Non solo Paolo Grassi e Giorgio Strehler, ma Zavattini e Joris Ivens sono da contare tra i suoi incontri più importanti che come dice gli hanno insegnato come si lavora nel cinema, come si scrive una sceneggiatura e come si gira. O ancora maestri oggi purtroppo misconosciuti come Michele Gandin o colleghi come Luigi Di Gianni. Riservando una nota al “documentario al femminile” dal quale a suo avviso s’annidano i miglior film contemporanei. Qui però si celebra il centenario della nascita di Paolo Grassi e il discorrere è confinato sulla sua figura. Dunque, Virgilio Tosi, classe 1925, lega la maggior parte della sua avventura intellettuale al documentario scientifico, di cui è uno dei maggiori studiosi al mondo. Ancor oggi le sue pubblicazioni sono tradotte e la sua presenza è richiesta in scuole ed università. I suoi film vengono proiettati in seminari e sono visibili anche su youtube. Molti documentaristi italiani sono dichiaratamente suoi allievi sia per averlo avuto come insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia sia per averlo aiutato direttamente sul campo. Ma, come racconta in uno dei capitoli più belli della sua autobiografia, “Storia di un’adolescenza breve”, edito per i suoi novant’anni da Carocci, Tosi prima di essere completamente assorbito dal cinema, si è occupato di teatro e subito da protagonista. Infatti, con Paolo Grassi, Giorgio Strehler e Mario Apollonio è tra i firmatari della Lettera programmatica, pubblicata da Vittorini su Il Politecnico nel febbraio-marzo del 1947, che è nei fatti l’atto fondativo estetico del Piccolo Teatro di Milano che di lì a poco debutterà con “L’albergo dei poveri” di Gorkij nella sala storica di Via Rovello, già covo di tortura dei repubblichini di Salò. “Eravamo una sorta di C.L.N. del teatro. Con Grassi e Strehler esponenti della componente socialista, io comunista. Tutti di sinistra e giovanissimi, per questo fu ritenuto di chiamare a completare il quadro, il professore della Cattolica, Mario Apollonio, che già allora era un grande storico del teatro e sopratutto era uno che aveva partecipato alla Resistenza come partigiano bianco. Fu un’invenzione di Grassi il suo arrivo dopo che dal Comune gli avevano fatto notare che tutti i componenti del futuro teatro erano solo laici di sinistra”.

Qui siamo già nel dopoguerra e a un passo dalla fondazione del Piccolo Teatro, il primo teatro pubblico in Italia. Paolo Grassi, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita e tutta una serie di celebrazioni partite la settimana scorsa da Milano con la mostra a lui dedicata. Ecco, quando l’hai incontrato la prima volta?

Non ho memoria precisa della prima volta in cui incontrai Paolo Grassi, di certo eravamo durante il periodo dell’occupazione tedesca, e forse era già entrato in clandestinità, pur lavorando per la Rosa e Ballo e si era fatto crescere la barba. Probabilmente è andata così, avevo un ufficio all’Eti e aiutavo le compagnie a salvare le scenografie di proprietà dell’Ente Teatrale trovando dei nascondigli e non farle andare perdute. Lì Memo Benassi mi teneva d’occhio e un giorno mi disse che avendomi osservato a lungo aveva capito che non avevo niente a che fare con i repubblichini e con il fascismo e che avrebbe voluto farmi conoscere Paolo Grassi. Mi chiese di entrare nel movimento socialista, lasciai cadere la richiesta nel vuoto, ero pacifista ed ero sentimentalmente legato alla corrente comunista. Non mi avrebbe mai convinto, sebbene mio padre fosse un socialista riformista degli anni ’20 e mi commuove il suo ricordo.

Grassi peraltro aveva rapporti con i comunisti e li avrà a lungo. Alcuni dei suoi migliori amici erano comunisti. Credeva ad un social-comunismo, a predominanza socialista, che non ebbe molta fortuna. Allora, conosci Grassi, consolidi l’amicizia, frequenti e recensisci spettacoli teatrali…

Avevo sedici anni e scrivevo critiche teatrali. Avevo quasi sempre un posto a sedere gratuito a teatro e talvolta mi capitava di avere accanto critici come Renato Simoni del Corriere della Sera. Oggi credo una cosa impensabile.

Tornando al Piccolo Teatro?

Prima del Piccolo c’è però il Circolo Diogene che era stato aperto e finanziato dal proprietario della Libreria Zanotti in Brera. Lo avevo fondato con quest’industriale setaiolo di Como, Zanotti, così innamorato della cultura e dei libri da aprire questa libreria e avevo subito chiamato Grassi e Strehler chiedendogli di entrare nel direttivo. Offrivamo ai giovani commediografi di leggere i loro copioni inediti. Davamo la caccia in un certo senso così ai nuovi autori. Invitammo pure un giovanissimo Vittorio Gassmann a leggere il copione di un altrettanto giovane autore italiano. Purtroppo non rammento più il nome. Sì perché facevamo leggere anche traduzioni di copioni stranieri.

Al contempo Grassi continuava l’elaborazione teorica della sua idea di fondazione di un teatro pubblico in Italia. I suoi articoli creavano discussione ed in particolar modo “Teatro, pubblico servizio”, uscito nel giorno della Liberazione del 1946, diede la stura a tutto ciò che accadde dopo…

Direi di sì. Tutto accadde in modo vertiginoso. Grassi fungeva da collegamento con il Comune e il Sindaco Greppi. Ogni cosa veniva deliberata per porre le basi per la realizzazione del progetto.

Queste le ragioni istituzionali, mentre per quanto riguarda le ragioni estetiche chi materialmente scrisse la Lettera programmatica?

Furono Grassi e Strehler, io collaborai. Poi venne Apollonio cui fu sottoposta per una sorta di approvazione.

Venne emendata dallo storico del teatro?

Ricordo che Apollonio scrisse un “prologo” dal palcoscenico che voleva recitare la sera del debutto. E suoi interventi nel cartellone della prima stagione. L’inserimento di Calderon si deve a lui. Voleva imporre una sua “Duse”, ma ciò non gli riuscì.

Poi Apollonio lasciò per tornare ai suoi studi, libri e romanzi, mentre tu prendevi la strada del cinema. D’altronde già lavoravi ed avevi amici tra i critici e i registi dell’epoca.

Andai via alla fine della prima stagione, avevo contribuito alla riuscita di alcuni spettacoli. Per “I giorni dell’ira” di Salacrou risolsi alcuni problemi di scena di Strehler organizzandogli nella scena del treno che arriva al passaggio dei partigiani con una retroproiezione.

C’è sempre il cinema nel tuo destino.

Credo di sì. Anche l’aver trovato una spezzone di pellicola con il treno mi è sembrato un simbolo di ciò di cui mi sono occupato per tutta la vita, in tutti ruoli, anche istituzionali guidando alcune associazioni di categoria. L’avventura con Grassi resta una parte piccola, ma indimenticabile della mia attività. Quando molti anni dopo Grassi divenne Presidente della Rai mi commissionò un’indagine sul documentario scientifico in tutta Europa, mi resi conto di come la nostra amicizia non era mai venuta meno.