La settimana scorsa sono stato invitato, insieme a Mario Gritti, del gruppo uomini di Verona (nella rete maschile plurale) a un seminario con giornalisti e giornaliste di varie testate dell’Alto Vicentino, a Schio.

Ospiti le donne della Cooperativa Samarcanda, che insieme a una ventina di altri soggetti, gestisce il progetto “Re-living. Percorsi integrati a favore della parità di genere”. Iniziativa che affronta mancanza di lavoro, povertà, esclusione sociale. Alcuni incontri sono rivolti ai media: il tema riguarda i linguaggi spesso afflitti da stereotipi sessisti sulle pagine dei giornali, alla tv, in rete.
Con Mario abbiamo raccontato un po’ dell’esperienza di maschile plurale, e parlato di una “informazione consapevole della differenza sessuale”. Ho ripercorso vissuti professionali a l’Unità – dove la presenza femminile era forte e riflesso dell’emancipazionismo del Pci, ma come negli altri giornali il comando è sempre stato prerogativa maschile – alla Rai (ho partecipato come autore a “La storia siamo noi”, dove Loredana Rotondo aveva creato un gruppo di lavoro con alta presenza di donne, e dove i conflitti di potere tra i sessi certo non mancavano), al Comune di Genova, tra il 2000 e il 2007.

Il servizio che dirigevo per la comunicazione, nei momenti difficili del G8 e poi dell’anno in cui la città fu Capitale europea della cultura, rispondeva a un’assessora, Anna Castellano: la macchina amministrativa contava moltissime colleghe tra impiegate e dirigenti, ma le donne quasi scomparivano nella Giunta. Asimmetrie sintomo quantitativo di un conflitto sul terreno del linguaggio, del simbolico, quindi della politica e del potere. Le controversie sulla declinazione di certe parole – ho scritto “assessora”, e a Schio ho capito che ancora qualche cronista si scandalizza – parlano della stessa questione. Non si poteva poi eludere la violenza maschile e i modi con cui viene raccontata.

Credo non bastino – anche se opportune – le prescrizioni sul “come bisogna scriverne”. Interloquendo con i colleghi mi è venuta questa immagine: ammiriamo soprattutto i giornalisti che rischiano la vita per raccontare i teatri di guerra, che si identificano con le vittime, scavano le ragioni e gli interessi alla radice dei conflitti. Forse un uomo, inviato sul fronte quotidiano della guerra tra i sessi, dovrebbe cercare dentro di sé una passione simile, con la difficile consapevolezza di appartenere anche lui, che lo voglia o no, all’esercito del nemico.

Le amiche di Samarcanda ci hanno salutato regalandoci due libri.
Uno parla con belle fotografie ( di Luca Sassi) della trasformazione del territorio di Schio, da antica “Manchester d’Italia” a un luogo che cerca di reinventare il modo di produrre e di vivere. L’altro è la traduzione e il commento che una di loro, Valentina Sperotto, ha fatto di un testo di Denis Diderot (Colloquio di un filosofo con la Marescialla di***). Il filosofo cerca di convincere la sua interlocutrice che anche un ateo può vivere perseguendo il bene.

E Valentina sottolinea la qualità di apertura, sincerità e gentilezza che il linguaggio assume proprio perché l’”avversaria” fervente religiosa è una donna. Un’idea di convivenza che in certo modo ho rivisto nell’attività di Valentina, di Silvia Ferrari, Alessandra Turcato e le altre (quasi quasi le definirei “operaie sociali”…) che nella loro sede hanno realizzato anche uno spazio di “co-working”, che affrontano il disagio che le circonda con l’ottimismo di chi crede al “progresso” non come religione della ragione ma come altro modo di intendere le vite.