Giacomo Balla, “Finestra su Düsseldorf”, collezione privata

 

La Porte-fenêtre à Collioure di Henry Matisse raffigura una finestra spalancata su una campitura nera. È un quadro non finito che l’artista ha tenuto sempre con sé, attribuendogli un valore particolare, biografico e simbolico. Ridotto ai minimi termini, il tema classico della finestra dipinta implicava l’apertura verso uno spazio ambiguo, in cui non è chiaro se al di là dell’infisso si disveli un interno molto buio o un’oscurità notturna e interiore. Sarebbero bastate delle figure, come nel Balcon di Manet, per fugare ogni dubbio. Nel dipinto di Matisse si percepisce invece un’assenza, data da uno schermo opaco.
Francesco Tedeschi si era già soffermato a lungo sull’opera in un saggio del 2018 sulla dimensione immateriale dell’arte contemporanea, tesa in direzione spirituale, e vi ritorna in Luoghi di transizione Forme e immagini di “passaggio”, fra arte e architettura (Morcelliana, pp. 236, euro 22,00). Qui essa ha un ruolo cardine all’interno di una rassegna iconografica sui concetti di soglia e di spazio, condotta seguendo sette percorsi di fenomenologia dell’immagine che affondano le radici nella storia dell’arte per spiegare la contemporaneità. Nato da un corso universitario alla Cattolica di Milano – di cui conserva il tono narrativo, concedendosi slarghi divulgativi per un lettore meno attrezzato –, il libro punta a stabilire un dialogo fra gli strumenti della storia dell’arte e quelli della cultura visuale, e a ricucire i nessi di una lettura interdisciplinare in cui interagiscano sul piano teorico suggestioni provenienti dalla letteratura come dalla geografia, facendo tesoro di tutte quelle riflessioni trasversali che saltano gli steccati disciplinari per andare al cuore del senso moderno delle immagini.
Per capire questo libro, infatti, bisogna ricordare a monte almeno due esperienze cruciali nell’itinerario intellettuale di Tedeschi: la mostra del 1998 Lo spazio ridisegnato e il libro del 2011 Il mondo ridisegnato. La mostra, che vedeva coinvolti molti artisti, da Castellani ad Aricò, da Staccioli a Valentino Vago, dava occasione di rilettere su come essi, chiamati a intervenire entro alcune dimore storiche della provincia di Milano, potessero usare lo spazio nella sua globalità, in funzione di opera e non solo come luogo di allestimento. Nel libro del 2011, invece, lo studioso aveva assunto il modello geografico «come metro interpretativo in sede critica»: non solo, insomma, una mappatura di quelle esperienze artistiche che avevano avuto un rapporto intenso con problemi di intervento sul territorio, ma un tentativo di trasportare nella riflessione storico-artistica gli strumenti teorici di quella disciplina.
È fra questi due poli che prende forma uno dei concetti portanti di Luoghi di transizione: l’idea di uno «spazio di materia» in cui le opere su scala ambientale non comportano solo «una diversa qualificazione degli oggetti, dei materiali e delle immagini che vi sono raccolti», ma si configurano come «interventi che operano sullo spazio come materia propria della creazione», con visioni affini a quelle dell’architettura, seppur applicate a contesti temporanei. Nel 2011 Tedeschi aveva scritto di un’arte che ha agito sullo spazio «non solo in quanto oggetto di rappresentazione, ma come materia d’azione»; oggi, nel capitolo terzo del libro dedicato al «corridoio» come luogo di attraversamento caro a certe ricerche contemporanee, l’accento si sposta sull’utilizzo del vuoto «come materia propria dell’opera d’arte», riferendosi a casi in cui – vedi la Topoestesia di Gianni Colombo – l’opera «trova nella realizzazione di un rapporto con la conformazione fisica dei luoghi la sua specificità».

Era l’eredità di Lucio Fontana, centrale per chi ha avuto una formazione milanese, a fare da motore primo di tutto. Prima di arrivare a quel punto, però, Tedeschi ha qui allargato lo sguardo a una casistica più ampia e con radici più remote. Si parte dall’iconografia della finestra, spazio pittorico che stabilisce un aprirsi dell’interno verso l’esterno come griglia compositiva e intarsio di un quadro nel quadro (Stoichita). Il percorso si sviluppa poi nel tema della porta, rovesciando il punto di vista (dall’esterno all’interno) e ponendo al contempo, sulla scorta di Hubert Damish e Louis Marin, questioni di opacità e trasparenza del dispositivo pittorico: da Van Eyck a Wilhelm Hammershøi, si giunge alla Finestra su Düsseldorf di Giacomo Balla e si approda a Ilya Kabakov.
Sono queste le premesse che traghettano il lettore nella contemporaneità, quando gli artisti scelgono di usare spazi di transito e di raccordo, come i corridoi , quale principale ragione espressiva. Lo stesso vale per la negazione della verticalità in favore di un rapporto col suolo e con la terra – in senso sia concreto sia simbolico – o del ricorso al vuoto assoluto da Klein a Kapoor. Ma l’idea dell’opera d’arte come percorso si amplifica poi nello schema del labirinto – letto come un articolato e polisemantico corridoio sviluppato in spazio chiuso e pluridirezionale – e nella moltiplicazione virtuale delle prospettive data dal gioco di specchi.
Delle riflessioni su geografia e arte Luoghi di transizione ha ereditato l’idea di leggere l’esperienza di fruizione dello spazio, sia esso fisico o dipinto, in una chiave dinamica, nei suoi momenti di sospensione fra aspettative virtuali e disvelamenti progressivi: prima del passo che attiva lo spazio fisico moltiplicandone prospettive e punti di vista, è l’occhio che perlustra la tela a inoltrarsi in un percorso esplorativo guidato dall’artista, anche quando questi mette in crisi le abitudini percettive trasformando le cornici in schermi che proiettano su una realtà altra, talvolta inquieta ed esistenziale, o sovvertono i parametri di lettura in profondità.
Sottotraccia, però, il libro manda segnali anche in altre direzioni, a partire da un eloquente allargamento del canone ad artisti raramente considerati (molti di questi erano stati protagonisti del Diario bisestile dell’anno Duemila, brillante esperimento di annotazione critica giornaliera, edito nel 2001 da Campanotto, condotto da Tedeschi registrando riflessioni brevi occasionate da incontri e sguardi retrospettivi): una riconferma di come la disponibilità all’intuizione critica e alla scrittura creativa possa sottrarre la storia dell’arte ai suoi steccati addentrandola nel labirinto.