San Siro è stracolmo, altro che derby. Qui è cinque contro tutte, che urlano, piangono, riprendono, fotografano, twittano. E che non stanno mai ferme, anche quando il movimento è superfluo. Una eccitazione di massa inoculata in migliaia di famiglie italiane da quando mesi fa si è sparsa la voce del concerto milanese. Già lo scorso ottobre era pura febbre, caccia al biglietto, poi è arrivata una seconda data (domenica 29, sempre San Siro) e poi una terza il 6 luglio allo stadio olimpico di Torino (inizio ore 18). Sabato sera l’impatto con i cinque ragazzi anglo-irlandesi è stato surreale: un esercito di adolescenti (9-20 anni) pronte a sollevare il mondo, qui e ora.

Quasi consapevoli che il fenomeno delle boyband è per definizione a scadenza, il più breve di tutti i generi, il più atroce, quello che quando si esaurisce lascia solo vittime sul campo; un cimitero di voci e ballerini: dai Bros ai Big Fun passando per i Take That, tornando indietro negli anni Settanta ai Bay City Rollers e di nuovo avanti verso i Brother Beyond. Del resto è la dura legge delle boyband: un mondo quasi esclusivamente popolato di pupazzini ammaestrati, dotati solo di voce e belle facce; un sistema a circuito chiuso che non sollecita troppa empatia quando tutto si dematerializza.

Da lì, il disastro. Cause, avvocati, recuperi di royalties mai pagate, una girandola di traversie che cancella di colpo i milioni fatturati con tour e merchandising. Chi scrive ricorda una vecchia intervista a Duncan Faure, secondo cantante dei Bay City Rollers: «Vivevamo solo con i soldi dei tour. Alle nuove boyband consiglio di stare attente a come vengono distribuite le finanze. Pensi di essere ricchissimo ma alla fine dei giochi non ti hanno pagato come dovevano».

Si stima che ciascuno dei cinque One Direction possegga ora un patrimonio personale di oltre 30 milioni di euro, che sembrano tanti e che lo sono, ma tutto dipende dai punti di vista e dalle singole esigenze (sic). E soprattutto da quanti pezzi hai realmente composto, perché i concerti e le t-shirt passano, le canzoni restano. E questa è la grande nota dolente: gli One Direction eseguono, e basta. E non sorprende, altrimenti non sarebbero una boyband, ideata, pensata, elaborata, strutturata da altri e piazzata in tv.

Ma tant’è, in fin dei conti il loro pezzo più famoso recita «Live while We’re Young» – vivitela finché sei giovane – e anche questo non è stato scritto dal gruppo. Ma almeno Louis Tomlinson ha preso il titolo alla lettera e si è comprato i Doncaster Rovers, squadra inglese di calcio di terza serie di cui è da sempre tifoso e con cui fa pure la riserva. Di questo e altro alle ragazzine presenti poco importa: per loro contano solo What Makes You Beautiful, One Thing, Live While We’re Young, Little Things, Kiss You, Best Song Ever o Story of My Life.

Tutte hit, una dietro l’altra, trafitte da lame di luce, schermi video palpitanti e urla strazianti. E però stasera niente eccede il brivido dell’urlo in sé, nulla prefigura atteggiamenti minacciosi, punti di vista insidiosi, tutto è così ovviamente prevedibile. Sembra di essere piombati dritti dritti agli Mtv Awards, a una puntata di X Factor o The Voice; sembra la tv catapultata in uno stadio, allargata a dismisura, celebrata. Un vero show televisivo mastodontico. E così deve essere.

Del resto parliamo di concorrenti partiti come cantanti solisti e messi insieme da Simon Cowell all’edizione 2010 di X Factor. Rispetto al resto dei colleghi, però, gli One Direction rappresentano un’incredibile eccezione. Perché chi nasce in tv, muore in tv; quando sconfina nei live (e tende a credere che presto sarà come i Beatles) finisce a pezzi, non ha struttura, non ha passato. Chi gestisce gli One Direction ha calcolato anche l’eccezione. Il risultato è che questi cinque ragazzini incarnano alla perfezione la media borghesia globale, quella delle scuole private (ma non esclusive), dei marchi Jack Willis in Inghilterra e Subdued in Italia.

Soggetti in grado di spostarsi per seguirli e di investire sul gruppo. Chi li gestisce ha di sicuro intorno figli e figlie su cui «regolarsi« e autocentrarsi, capaci di apprezzare canzoni pop senza irriverenze ritmiche (R&B di tanto hip hop bianco) o testuali, pezzi da camicetta appena appena trasparente o con sopra la frase più prevedibile del mondo («domani faccio la brava»); gli One Direction vanno anche oltre: rifuggono dallo stereotipo delle boyband (stile Take That) con balli tutti coreografati, danzano spesso ognuno per conto proprio, come si balla nelle discoteche delle cinque del pomeriggio. Il resto è simile a tutte le boyband del mondo: il fanatismo delle Directioners (così si chiamano tra loro le fan), la devozione estrema (alimentata seguendo i tweet dei cinque ragazzini), il protezionismo estremo: girano in rete video amatoriali omoerotici di fan che ipotizzano una relazione tra Louis Tomlinson e Harry Styles.
E mentre tutto intorno pulsa il caos, la domanda che sorge spontanea è: come può un padre sopravvivere a un concerto degli One Direction? C’è chi legge, chi scorre il tablet, chi si tappa le orecchie sentendo altro, chi guarda smarrito, chi pensa che siano l’ennesima calamità naturale caduta sulla testa della propria bambina, l’ennesima dose di fast food sonoro, chi li considera una sana e romantica barriera contro i testi e i video ipersessualizzati di altri artisti, chi conviene sul fatto che a 13 anni anche noi sentivamo queste cose. Chi semplicemente ha acceso la tv e si è ritrovato in uno stadio. Succederà anche stasera.